di Chiara Poletti
La lezioni di vita del più celebre critico outsider
18/06/2008 15:24:35 - Schietto, intelligente, tagliente, capace di arrivare dritto al cuore della verità, una verità, la sua, espressa fuori dal coro, che schiva i riflettori della mondanità, con espressioni colorite, metafore geniali, e citazioni da cattedra universitaria senza fine. Tutto questo arriva da un piccolo grande uomo, citato in ogni enciclopedia del cinema e del teatro, il critico Goffredo Fofi, un’ospite molto caro alla Romagna, intervenuto pochi giorni fa, al Festival dei Cortometraggi di Ravenna, il Circolo Antonio Ricci, grazie al legame d’amicizia con il regista ravennate Marco Martinelli, reduce dal laboratorio con gli adolescenti più sfortunati di Scampia a Napoli che hanno preso al film Gomorra.
Silenzio sacro, due ore di monologo e il Teatro Rasi in un clima di perfetta sintonia, si è trasformata nella serra magica dei pensieri, lontano dall’esodo giovanile della Riviera . Parole, all’ombra.
Un’esperienza fondamentale che arriva grazie alla filosofia del pensiero social-educativo del Teatro delle Albe, che affronta di petto i mali della vita, le ingiustizie, e non si nasconde dietro alibi, omologazioni. Dice Fofi, di aver sempre evitato nella sua lunga vita, qualsivoglia passerella, dai vari Festival di Mantova alla Fiera del libro di Torino, perché oggi non si fa più una dialettica utile all’uomo, ma “ce la si racconta”. I pensieri, dice, sono diventate caramelle da ingurgitare in fretta. Ai grandi salotti festivalieri, si dice A e due ore dopo, si applaude tutto il contrario di A.
“Il cinema è sempre stato, al contrario, ciò che ci mette in crisi, ciò che fa pensare, che ci turba, ciò che ci fa chiedere cosa dovremmo fare della nostra vita, dove andiamo e cosa facciamo. Ha sempre descritto utopie, grandi passioni, smosso i poteri, mentre oggi mancano tutte queste rappresentazioni della sofferenza, e l’atto di ‘sconsolare’ e di alimentare dubbi si è trasformato nell’atto di ‘consolare’ per portarci al silenzio-assenso del consumo e del non pensare troppo”.
“La cultura alta, è sparita, la rappresentazione dell’arte bassa anche, e tutto è livellato entro strutture di medio livello alimentate a spot e pop-corn. Un processo, tuttavia, avviatosi lentamente dopo la fine della società industriale, negli anni ‘60/70, che lentamente sta facendo morire il cinema di ricerca. Con l’ingresso nella società immateriale, il lavoro che non è più lavoro e l’arte non è più arte. E credo che quest’enorme mercificazione della comunicazione nell’arte di oggi, sia una delle grandi tragedie del nostro tempo" dice Fofi. Oggi un terzo del costo di un film va in pubblicità, e i bravi registi che ancora ci sono, devono per forza diventare imprenditori di se stessi, altrimenti non riescono a sostenersi. Una cifra enorme, che rischia di far sparire le minoranze che non si accentrano su Roma.
Per questo ho detto più volte, di non credere nella rinascita del cinema italiano, poiché non credo nella rinascita della società italiana. Viceversa, io continuo a sostenere, che dovrebbero essere sempre difesi i più ‘meritevoli e i poveri’ come dice la nostra Costituzione”.
Bellissimo, un altro passaggio di Fofi: “Il problema del nostro tempo, diceva il grande maestro Nicola Chiaramonti è l’egotismo, quello che anni dopo Christopher Lasch ha chiamato la cultura del narcisismo diffuso. Tutti noi nel disastro delle possibilità collettive di partecipare a qualcosa che veramente serva a rendere il mondo più vivibile, finiamo per rinchiuderci nel nostro io, ricercando delle gratificazioni nel riconoscimento dell’individuo. Oggi c’è una forma paradossale e sbagliata di individualismo, in cui l'io conta più di ogni altra cosa. Si vive rinunciando sostanzialmente a qualsiasi ruolo rispetto alla collettività. Queste persone invece mi hanno insegnato un po’ il contrario e cioè che si esiste in quanto si è parte di un gruppo, e quello che si fa ha senso solo in nome della collettività, non dell’io. Il lavoro intellettuale individuale contava poco e lo dicevano anche i grandi anarchici del novecento che erano contro i diritti d’autore, contro cioè, il riconoscimento personale del singolo e della sua retribuzione, perché tutto ciò che è pensiero nell’arte deve appartenere a tutti”.
“Il cinema era nato con la funzione precisa di acculturare le masse popolari e analfabete. Una funzione democratica enorme. La diffusione della cultura popolare, è stata ricchissima dal ‘51 al ‘63. Lo dimostra la sterminata quantità di forme espressive in ogni angolo d’Italia: c’era l’avanspettacolo, il circo, il romanzo d’appendice, il fumetto. E il cinema rubava un po’ da tutte queste forme, dall’alto al basso, dalla lirica alla commedia, da Dickens a Dostoevsky. Chaplin – e mi piace ripeterlo ogni volta- grazie al muto sonoro, è stato l’unico al mondo ad essere “capito” per la prima volta da tutti, bambini e vecchi, poveri e ricchi, occidente e oriente. Pantomima inglese e cultura popolare trasformata in cultura di massa. La società cresciuta a dosi massicce di Toto e Raffaello Matarazzo, come la mia, si riconosceva in questi personaggi, si identificavano; la moglie del povero esiliata dal ricco, le classi agiate nei sogni di Amarcord, etc. E in questo contesto era fondamentale l’analisi critica e dialettica all’interno del triangolo tra artista, critico e pubblico. Oggi ci sono più funzionari festivalieri e meno critici, siamo tutti più legati al mercato imposto dal tempo, ed è sempre più raro trovare la figura dell’intellettuale che riflette senza smanie di successo.
Nel Novecento invece, il grande cinema faceva scuola, anche se il successo arrivava grazie a registi che seguivano logiche tra loro ben diverse. “Ci sono stati quelli investiti da un mandato popolare, -spiega il critico- i registi altamente intellettuali e quelli di una sola stagione. Al primo apparteneva Totò, fenomeno di successo in un contesto storico ricettivo che ne determinò le scelte successive dello stesso Totò per rispondere alle esigenze della gente. Un paragone in letteratura è il best seller come Lessico Familiare di Natalia Ginzburg, in cui non a caso si parlava di ebrei benestanti, torinesi e antifascisti. Una storia che incuriosì le masse, perché rispondeva al bisogno di ricercare modelli diversi, in un paese cattolico deluso dalla Guerra.
Nel secondo filone, ci sono Buñuel, Kubrick, Fellini e nel terzo i registi che finito un periodo storico, non hanno avuto più niente da dire. Come Almodóvar, importantissimo interprete della Movida spagnola che ha liberato erotismi e pulsioni dopo la dittatura di Franco. Così Gianni Amelio e Wim Wenders.
Ad ogni modo, i registi bravi, per fortuna ci sono ancora in Italia, accennando all’ultimo Cannes. “C'è Garrone che con Gomorra ha fatto un film che io considero geniale, per quanto spirituale e religioso. Non ci sono scene di sangue, cadaveri lacerati come fa Scorzese, e c'è l'elogio alla vita, non alla morte. Bisogna rinforzare queste minoranze libere e coraggiose di parlare della società che appartiene a tutti, e non rinchiudersi nel personalismo dei piccoli drammi casalinghi. E non pensare troppo al successo mediatico, perché del resto, come diceva Carmelo Bene, il successo non è altro che la "voce del verbo succedere" quindi se è già successo, è già andato”. Applausi e poi, un ricordo alla memoria di Dino Risi, hanno chiuso una bella giornata da calendario, tra tanti giovani che cercano sempre di più l’esempio del passato.
c.p.
nella foto, la recente ristampa del libroni Goffredo Fofi “I grandi registi della storia del cinema. Donzelli editore; 2008”.
Nota: Fofi è stato di recente citato da Tg1, dal Venerdì de La Repubblica ma non dalla “mia” città. Questa recensione è un atto a lui dovuto per la giornata splendida in sua compagnia. Un uomo con il coraggio di essere se stesso, al di là del denaro e con la forza di comunicare senza doppi sensi la realtà delle cose. Grazie Signor Fofi.