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“The Ax in the Oak” (Glitterhouse/Venus, 2008) |
Ben Weaver “The Ax in the Oak”
Etichetta: Glitterhouse Brani: White Snow / Red Red Fox / Soldier’s War / Anything with Words / Pretty Girl / Hawks + Crows / Dead Bird / Said in Stones / Alligators + Owls / Hey Ray / Out Behind the House / The History of Wheather Produttore: Brian Deck
Con Conor Oberst, Micah P. Hinson, Willy Mason, Ben Weaver fa parte di quella generazione di cantautori non ancora trentenni che sta echeggiando nel nuovo secolo quanto fatto negli anni Novanta da gente come Will Oldham, Bill Callahan, Elliott Smith. Ben Weaver è il meno noto del gruppo di giovani songwriter ma il suo ultimo disco – il sesto in dieci anni – è un piccolo capolavoro che non dovrebbe passare inosservato, nonostante la stampa italiana lo stia praticamente ignorando.
I primi due versi di Red Red Fox («part of me is always true/part of me is always blue») sono un importante attestato d’identità: siamo chiaramente dalle parti del cantautorato americano intimo e un po’ sghembo, nudo e malinconico. Le canzoni sono state scritte per la maggior parte nel 2007, mentre Ben si trovava nell’appartamento di un amico a Prenzlauer Berg, ex Berlino Est. E le canzoni, per la maggior parte, sono malinconiche. Non sono canzoni su Berlino, ma Ben si è lasciato ispirare dalla capitale tedesca, il suo sguardo poetico si è posato sulle cose, sulle finestre, sui piccoli animali, sulla frutta, sulla polvere. Ci sono passaggi dell’album a tal punto contemplativi che, ascoltandoli, sembra quasi di toccare con mano l’impeto scrutatore del poeta in terra straniera. Dalla Germania Ben ha portato in dono ai suoi brani brividi e rigore, cieli tersi ma aria gelida, solitudine e voglia di rinascita.
L’iniziale White Snow porta dentro tale freddo sin dal titolo. E il freddo trapassa i cristalli di neve per depositarsi sui protagonisti della canzone, bloccati in un limbo tra incomunicabilità e ironia («what I wrote on my hand last night was gone in the morning/you get one wish for each dot on the June bug’s wing/there’s only one dot on the one I’m holding/I’m not gonna waste it on you/why would I waste it on you»). Soldier’s War, arrangiata, suonata e cantata con sacralità, è ballata per organo in cui la guerra è metafora di lontananze immani e vuoti non suturabili («your beauty hasn’t faded you are just as you were then/still making your own eye shadow from spit and blue denim/I was your soldier away fighting in a war/to get back home is all a soldier is ever fighting for»). Un gioiello che regala emozioni sin dal primo ascolto, così come accade con la successiva Anything with Words, ballata verbosa, lirica, bella tutta, un poemetto musicato in crescendo, con uno strabismo alla Badly Drawn Boy, un occhio alla tradizione e uno alla fantasia, ma con versi di un’intensità che il menestrello inglese non ha mai raggiunto («whispering things in my ear I’d want to write down/this is where they’d found you if I hadn’t find you first/lying in bed next to fruit turning brown in a bowl»). Distanza riposo riflessione ripartenza rinascita fuga sono i temi nascosti nelle mille metafore di Out Behind the House, il pezzo che assorbe l’emozione della seconda metà del disco e simbolicamente lo chiude con l’immagine del titolo («only the swifts can see what’s behind the waterfall/when you have wings you can land anywhere you want/when there is nothing left to explore I’ll give my name up to a ghost/throw my ashes to the birds and leave the ax in the oak»).
Ben non è cantautore da limitarsi a suonare la chitarra acustica per accompagnare i suoi versi, dentro “The Ax in the Oak” butta invece ogni sorta di strumento. La parta da leone la fanno una chitarra elettrica younghiana che, specie nel ritornello di White Snow, alza i toni e rende le parole di pietra, e le tastiere alle quali è chiesto di stendere il tappeto sonoro ideale per spalancare una via alla commozione, discretamente e con eleganza. Sono davvero svariati i colori con cui Ben ha arricchito le canzoni una volta tornato da Berlino, con l’aiuto del produttore Brian Deck, uno che, avendo lavorato con Califone e Modest Mouse, di suoni poco convenzionali se ne intende: il violoncello e tutti gli archi suonati da Julia Kent che, in Red Red Fox, Hawks + Crows, Hey Ray, sostengono architetture emozionali di grande pregio, l’elettronica spesso velata che viene estremizzata nei suoni giocattolo di Pretty Girl, un pezzo appiccicoso inscatolato magistralmente dentro tre minuti scarsi con lo stesso gusto per il divertissement di un Jens Lekman.
Se ascoltando “The Ax in the Oak” si è portati insomma a pensare che Ben sia cresciuto a Leonard Cohen e a Bob Dylan in eguale quantità, non si può altresì negare che il giovane songwriter non conosca alla perfezione la lezione dei maestri americani recenti, se in alcuni momenti riesce a toccare la profondità di Bill Callahan, in altri arriva a sfiorare i suoni barcollanti dell’ultimo Iron & Wine e in un pezzo (Alligators + Owls) sembra addirittura plagiare una scheggia del catalogo Eels.
Ben è però bravo nel guardare i suoi riferimenti e nel mantenere un’invidiabile freschezza di scrittura. I suoi testi hanno una capacità evocativa che molti suoi colleghi onestamente si sognano. La sua voce profonda e cupa – un misto tra Robert Fisher e Bill Callahan – fa il resto. «I’ll be back in a while» ripete in Out Behind the House. Speriamo. “The Ax in the Oak” è un disco semplicemente bellissimo, ma da uno capace di scrivere due pezzi come Soldier’s War e Anything with Words è lecito attendersi ancora di meglio.
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Pierluigi Lucadei
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Recensioni |
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il 22 Dec 2008 alle 14:01 |
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