BabyShambles @ Flog, Firenze – 19.10.06
Più pagliaccio che cantante, Pete Doherty. Dal pubblico – 17/18enni urlanti e adoranti a prescindere – arriva di tutto e lui non si lascia pregare. Se gli tirano un cappello se lo mette in testa. Se gli lanciano un paio di Converse legate con i lacci se le mette al collo. Persino se gli arriva un trench rosso da ragazza ha il coraggio di cantare tre o quattro canzoni con il trench addosso, striminzito e presto deformato. Non perde neanche un’occasione per rendersi ridicolo, Pete. Già la musica è quella che è, o quella che non è, non si capisce nulla, è cacofonia senza capo né coda, i quattro sul palco suonano ognuno per conto proprio, e dire che suonano è già un complimento. Pete sembra non rendersi conto di quello che sta facendo. Si aggira per il palco disorientato/perso e prima ancora di iniziare a cantare il primo verso della prima canzone del suo primo concerto del tour italiano – Firenze è la prima delle cinque date dei BabyShambles nel nostro Paese – mette i piedi sulla transenna e si dà la spinta per lo stagediving di rito che fa sbrodare tutti gli adolescenti dediti al fanatismo spinto, che si strappano le magliette, che gli strappano la maglietta, che si strappano i capelli, che li strappano anche a Pete. Quando risale sul palco inizia a cantare in modo schifoso e inciampa ogni volta che accenna un passo di ballo. Poi, senza un motivo apparente ma probabilmente dietro consiglio della scimmietta che porta in spalla, scaglia con forza inaudita il microfono contro la parete dietro il batterista, non ferendo quest’ultimo soltanto per un colpo di fortuna. E’ tutto così disarmante ché sto meditando la fuga. Lo spettacolo acquista un nuovo motivo di interesse quando sale sul palco Kate Moss. La modella più famosa del mondo, ex di Johnny Depp e ora fidanzatina e compagna di sballi di Pete, nonché, dicono, futura madre del suo discendente, miagola qualcosa al microfono, poi si ritira nel retropalco, dove nel frattempo si è radunata la parte più maschia e più adulta del pubblico della Flog. Secondo la stampa scandalistica d’oltremanica Kate si è ripulita dalla droga e fa di tutto per convincere anche Pete ad imboccare la via della disintossicazione. Quella che vedo a due metri da me ha invece tutta l’aria di una ragazza bruciata non pienamente in grado di intendere. Dondola la testa come un’ebete, accende una sigaretta dietro l’altra e io, nonostante mi impegni, non riesco ad unirmi cameratisticamente ai commenti arrapati dei maschi adulti che mi sono accanto. Kate non riesce ad apparirmi niente di più di una biondina insignificante. Oltretutto, sebbene inerpicata su tacchi vertiginosi, non è più alta del mio comodino. Un po’ poco per la modella più famosa del mondo. Intanto Pete continua a cascare a terra, a gracchiare come un decerebrato, ad accendersi le sigarette che gli tirano i ragazzini e a indossare i loro berretti. Vengo preso dalla morsa di un rimpianto: quello di non aver mai visto suonare dal vivo i Nirvana. Dovevo andarci quella volta a Roma, l’ultima, ma alla fine rinunciai, decisi di rimandare alla volta successiva. Dodici anni fa, potevamo esserci noi al posto di questi ragazzini, urlanti come loro, adoranti più di loro. E sul palco ci sarebbe stato Kurt Cobain. Qui il rimpianto mi porta a riflettere sulla dignità. Perché, pur nella merda con la droga peggio di Pete, Kurt non avrebbe mai accettato di rendersi pagliaccio in maniera così vergognosa. Quando sei al liceo, hai 17 anni e un demone che ti divora giorno e notte, è fisiologico aver bisogno di una rockstar da ascoltare appena ti svegli, prima di andare a letto, da appendere in camera, da toccare un giorno o l’altro, ma è così triste che l’ultima generazione sia andata a scegliersi proprio Pete Doherty. O sono io che ho quasi trent’anni e non capisco? Penso che l’età non conti. E’ un pensiero che riguarda la pochezza di ciò che vedo e sento. Ma mi rendo conto che il paragone con i Nirvana è fin troppo ingeneroso. Allo stesso modo i BabyShambles escono, però, con le ossa rotte se paragonati agli Oasis, una band che, soprattutto nel Gallagher più giovane, nel periodo di maggior fasto ha più volte assunto pose ed atteggiamenti dohertiani. Lì c’era però una potente macchina live che masticava sul serio il fottuto verbo del rock’n’roll e, non mi sembra poco, alcune delle più belle canzoni del pop-rock britannico ever. Il concerto dura appena un’ora, ma sembra passato molto più tempo, forse perché in un’ora è successo di tutto, sono stati passati in rassegna tutti i cliché più ritriti del rock, tutti quelli che piacciono tanto a Rolling Stone per intenderci. Interessante più dal punto di vista sociologico che da quello musicale, il tour dei BabyShambles è qualcosa che hanno voluto trasformare per forza in un evento, ma che per essere un evento ha bisogno che Pete lanci il microfono e sputi sul pubblico, che incarni la dannazione fighetta che tira le ragazzine e che ad un certo punto arrivi Kate a ristabilire livelli respirabili di testosterone. I BabyShambles hanno bisogno come il pane di queste cose, altrimenti non sarebbero nulla, assolutamente nulla.
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