Una terza guerra mondiale? Sì, ma ecologica.
di Barbara Poli 01/08/2008 - 1998:145 persone soffocate dal fango a Sarno; 1999:20.000 decedute a causa del terremoto in Turchia e 15.000 risucchiate dal ciclone in India; 2006: 230.000 portate via dallo tsunami in Indonesia. Questi i numeri dei morti delle più grandi catastrofi ambientali, per non citare quelli degli uragani, dei tifoni e dei cicloni che infestano periodicamente le Americhe e l’estremo oriente. Una vera e propria guerra mondiale, dove cambiano i fronti o i campi di battaglia, ma nella quale le vittime sono soprattutto "i civili": donne, vecchi e bambini in particolare, in un drammatico scenario che coinvolge l'intero pianeta. Un pianeta che sta cambiando con una velocità nuova e per molti aspetti sconosciuta, sulla spinta dei poderosi fenomeni naturali che da sempre regolano la vita sulla Terra ma anche attraverso la pressione sempre maggiore esercitata da un'unica specie anomala e per certi aspetti quasi invasiva: la nostra. Una specie che dagli albori della sua storia è impegnata a sopravvivere alle grandi catastrofi ma che oggi, complice anche il fatto di una popolazione passata in circa 10.000 anni da 5 milioni ad oltre 6 miliardi di individui, sembra dover pagare un tributo sempre più alto per sopravvivere. Incendi in estate, alluvioni in autunno e primavera, frane e valanghe in inverno, terremoti ed eruzioni vulcaniche tutto l'anno. E' questo il panorama, purtroppo, attuale, erroneamente sottovalutato e spesso presentato come conseguenza di eventi "naturali", ma che di naturale non hanno niente. Sono, prima di tutto, un segnale che c'è qualcosa di gravemente sbagliato. A cominciare da un sistema complessivo che, anche nel nostro Paese, è diventato molto fragile proprio a causa delle attività antropiche. L'abbandono progressivo delle aree montane, il taglio dei boschi in collina e lungo i fiumi, la progressiva canalizzazione dei corsi d'acqua principali e secondari con l'escavazione spesso selvaggia di sabbia e ghiaia negli alvei fluviali hanno gettato le basi per aggravare gli effetti di fenomeni naturali che, complici i cambiamenti climatici in corso, stanno assumendo sempre più connotati simili a quelli riscontrabili ai tropici. Se trent'anni fa l'onda di piena del fiume Po, il più esteso bacino idrografico italiano, ci metteva 4-5 giorni per scendere da monte sino al delta, oggi è questione di ore. E l'aumento dell'energia sprigionata dai fenomeni naturali, concentrata in tempi sempre più brevi, provoca effetti devastanti quando si somma all'incuria, all'ignoranza e alla presunzione umana. Infatti, nonostante tutto, si continua a costruire in luoghi sbagliati, lungo i fiumi o ai piedi dei versanti franosi, realizzando, in siti che prima o poi verranno colpiti, anche impianti a rischio quali fabbriche chimiche, centrali, discariche, ma anche strade e ferrovie. Si usano materiali inadatti o, per risparmiare, non si applicano gli accorgimenti costruttivi necessari - vedi quelli antisismici - se non quando si è assolutamente costretti. Eppure basterebbe poco, in termini globali, per limitare certi danni. Come disse nel 1973 Marcel Roubalut "se l'uomo non può impedire tutto, può prevedere molto". A patto di usare la testa con intelligenza e umiltà, e capire che la natura può essere il nostro più grande alleato, se non lo si maltratta. Questo richiederebbe, in Italia, un radicale cambiamento nell'approccio della gestione del territorio e lo sviluppo di un pensiero su "scala globale", in grado di cogliere le complesse interconnessioni tra i diversi elementi dell'ambiente e gli interventi dell'uomo.
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