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Licenziamento

Il lavoratore che si assenta e presenta la giustificazione oltre i termini previsti dal Contratto Colletttivo di Lavoro non può essere licenziato - Cassazione – Sezione lavoro – sentenza n. 21213, 28 settembre-2 novembre 2005 (sentenza)

Presidente Ianniruberto – Relatore Balletti

Svolgimento del processo

Con ricorso ex articolo 414 Cpc al Giudice del lavoro di S. Maria Capua Vetere B. F. conveniva in giudizio la Spa Brudetti Simer esponendo: a) di aver prestato lavoro subordinato alle dipendenze di detta società dal 18 febbraio 1988 e di essere stato licenziato per giusta causa con lettera del 27 marzo 1999 per assenze ingiustificate dal 7 marzo 1999; b) di avere impugnato il cennato licenziamento con lettera del 21 marzo 1999 eccependo che nei giorni di assenza contestati aveva dovuto assistere la figlia A. di cinque anni, affetta da sospetta broncopolmonite basale bisognevole di cure e di assenza domiciliare continua da parte di entrambi i genitori. Il ricorrente richiedeva, quindi, all’adito Giudice del lavoro di voler dichiarare “illegittimo, invalido e nullo” il licenziamento come dinanzi intimato con tutte le conseguenze reintegratorie e risarcitorie dovute per legge. Si costituiva in giudizio la Spa Brudetti Simer che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto.

L’adito Giudice del lavoro, dopo avere ammesso e fatto espletare prova testimonial, accoglieva la domanda attorea, ma, su impugnativa della società soccombente e ricostituitosi il contraddittorio, la Corte di appello di Napoli «in riforma dell’impugnata sentenza dichiara illegittimo il licenziamento (peraltro dichiarato “legittimo” in motivazione) irrogato al B. il 27 marzo 1999; compensa interamente le spese del doppio grado».

Per quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a) «la fattispecie va esaminata in base alla previsione di cui all’articolo 148 del Ccnl in questione, a norma del quale “salvo i casi di legittimo impedimento di cui sempre incombe al lavoratore l’onere della prova, e fermo restando l’obbligo di dare immediata notizia dell’assenza al datore di lavoro, le assenze devono essere giustificate per iscritto presso l’azienda entro 48 ore, per gli eventuali accertamenti. Nel caso di assenze non giustificate sarà operata la trattenuta di tante quote giornaliere della retribuzione di fatto ... quante sono le giornate di assenza, fatta salva l’applicazione della sanzione prevista dal successivo articolo 151, seconda parte”»; b) «l’articolo 151 commina il licenziamento per l’ipotesi di “assenza ingiustificata oltre tre giorni nell’anno solare”»; c) «solo in caso di legittimo impedimento del lavoratore, a carico del quale incombe l’onere della relativa prova, viene meno la correlazione tra l’ingiustificatezza dell’assenza e la sanzione disciplinare del licenziamento»; d/1) «il B. adduceva giustificazione delle assenze con lettere in data 15 marzo 1999 soltanto a seguito della ricezione della lettera con cui la società gli aveva contestato, con lettera del 12 marzo 1999, la sua assenza non giustificata iniziatasi il 7 marzo precedente e protrattasi fino alla suddetta data»; d12) «solo a seguito della ricezione (il 13 marzo 1999) di tale lettera il B, si è dunque risolto a fornire giustificazioni scritte deducendo ivi di aver assistito, nel periodo in oggetto, la figlia A., per una sospetta broncopolmonite diagnosticatale, e comunque di aver tempestivamente giustificato in ufficio la sua assenza, comunicando con l’addetta al personale, rag. D. C.»; d/3) «a prescindere dal rilevare che nella lettera di giustificazione non è indicato il momento in cui il B. aveva comunicato con la D. C.. e che costei (sentita quale teste in primo grado) ha riferito che la comunicazione del B. era intervenuta solo a seguito della contestazione fattagli, sta di fatto che la mancata giustificazione per iscritto sui motivi dell’assenza, risulta essersi protratta per oltre tre giorni», e) «rimangono, quindi, integrati gli estremi della previsione contrattuale (articoli 148 e 151) per la irrogazione del licenziamento disciplinare». Per la cassazione di tale sentenza “P. A.”, in qualità di erede del marito B. F. ,deceduto nelle more del giudizio, e di genitrice esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore B, A,, propone ricorso sostenuto da cinque motivi.

La Spa Brudetti Simer resiste con controricorso eccependo preliminarmente la “nullità della procura difensiva ex articolo 365 Cpc” e la “carenza di legittimazione attiva della ricorrente”.

Motivi della decisione

- Con il primo motivo di ricorso la ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (articolo 4 Costituzione, articolo 131 disp. att. Cpc, articolo 277 Cpc, articolo 2106 Cc)” - censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello omesso «di pronunziarsi sulla rilevata sproporzione tra il licenziamento irrogato e l’inadempienza imputata» e trascurato che «in ogni caso proprio sulla base dei fatti emersi non era possibile ritenere non legittimo l’impedimento documentato da certificato medico nel quale era prescritta l’assistenza continuativa di entrambi i genitori, [per cui] di fronte al rischio di una patologia molto grave per una bambina di appena cinque anni, caratterizzata da una evoluzione non sempre controllabile proprio nella prima importantissima fase della malattia, non si poteva sostituire una logica empirica ad un protocollo di diagnosi proveniente da un sanitario e documentata da un certificato senza incorrere nel vizio di irragionevolezza ed incompletezza nella motivazione su punto decisivo della controversia».

Con il secondo ed il terzo motivo di ricorso la ricorrente,denunciando “violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 Cpc (secondo motivo) e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (terzo motivo)”, rileva criticamente che la Corte territoriale «avrebbe dovuto quanto meno ritenere non accertati i fatti decisivi della controversia e disporre la rinnovazione della prova orale od ogni altro mezzo di prova ritenuto dirimente ex articolo 437 Cpc» e, in particolare, rimarca che «per quanto attiene, alla mancata comunicazione immediata della malattia da un lato l’articolo 91, comma 1, del Ccnl si riferisce testualmente alla sola malattia interessante la persona fisica del lavoratore e non è suscettibile di alcuna applicazione analogica e, per altro verso, ai sensi dell’articolo 92, comma 1, dello stesso contratto collettivo “il lavoratore assente per malattia è tenuto a rispettare scrupolosamente le prescrizioni mediche inerenti la permanenza presso il proprio domicilio”, per cui non avrebbe potuto il ricorrente assentarsi dal proprio domicilio per fare un telegramma in presenza di un certificato medico che gli imponeva di assistere in modo continuativo la piccola figlia ammalata».

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando “la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 39 Costituzione”, rileva che «l’articolo 39 Costituzione prevede che i contratti collettivi di lavoro acquisiscano efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce solo in presenza della loro “registrazione” secondo le norme di legge e la conseguente assunzione di personalità giuridica, [sicché], allo stato, i sindacati costituiscono associazioni non riconosciute e non registrate, per cui le disposizioni di contratto collettivo non possono essere automaticamente applicate a tutti i lavoratori di un settore, a maggior ragione allorquando la disciplina collettiva sia meno favorevole rispetto alla stessa normativa dettata nello statuto dei lavoratori di cui alla legge 300/70».

Con il quinto motivo di ricorso la ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione dell’articolo 156 Cpc”, evidenzia criticamente che «la contraddittorietà rilevata tra la parte motiva in premessa della sentenza della Corte di Appello e la parte dispositiva rendono la sentenza nulla per impossibilità di raggiungere lo scopo di dirimere la controversia».

- Preliminarmente sono da valutare le eccezioni sollevate dalla società controricorrente.

In primo luogo deve essere respinta l’eccezione di nullità della procura difensiva per essere la stessa stata apposta a margine del ricorso per cassazione “senza data”, “senza l’indicazione specifica a proporre ricorso per cassazione” e “senza l’elezione del domicilio in Roma”.

Mentre quest’ultimo punto è resistito inequivocabilmente dall’espresso disposto del comma 2 dell’articolo366 Cpc, a norma del quale «se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione», in ordine agli altri rilievi questa Corte ha statuito che «la procura speciale a margine del ricorso per cassazione è valida se, pur non contenendo specifici riferimenti al giudizio di legittimità, non rechi espressioni che univocamente conducano a ritenere che la parte abbia inteso riferirsi ad altro giudizio sicché, in caso di procura apposta a margine o in calce al ricorso o al controricorso, essa, facendo materialmente corpo con l’atto cui inerisce, esprime inequivocabilmente il necessario riferimento all’atto stesso, assumendo cosi il carattere di specialità, anche se formulata genericamente e senza uno specifico riferimento al giudizio di legittimità» (Cassazione 9287/97).

Di conseguenza, si conferma l’infondatezza della cennata eccezione.

- Anche la seconda eccezione sollevata con il controricorso si appalesa infondata. Infatti, l’affennazione di “carenza di legittimazione attiva della ricorrente” è stata fatta dalla controricorrente in modo del tutto apodittico e viene fondatamente resistita dalla comprovata qualità di successore a titolo universale della odierna ricorrente, quale coniuge di B. F. (deceduto, come si è dinanzi rilevato, nelle more del giudizio) e quale esercente della potestà genitoriale della figlia minore B. A. che, quindi, era pienamente legittimata a proporre ricorso per cassazione contro la sentenza emessa nel giudizio in cui era parte il defunto originario ricorrente, rispettivamente, marito e padre dei soggetti interessati al presente giudizio di legittimità.

Pertanto, pure tale eccezione preliminare deve essere respinta.

- Passando ora all’esame del ricorso come dinanzi proposto, i cennati motivi di impugnativa, esaminabili congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, appaiono fondati entro i limiti delle considerazioni che seguono.

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato dalla Spa Brudetti Simer a F. B. per aver ritardato a giustificare la sua assenza dal lavoro protrattasi per oltre tre giorni e dovuta all’esigenza di prestate assistenza domiciliare continua alla figlia A. affetta da broncopolmonite: decisione questa censurata sostanzialmente dalla ricorrente per mancanza di proporzionalità tra l’infrazione addebitata e la sanzionata espulsiva comminata e, conseguentemente, tale profilo di censura deve essere valutato in via assolutamente prioritaria.

- In linea generale, in tema di licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, ai sensi dell’articolo 2119 Cc e dell’articolo 3 della legge 604/66, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’infrazione commossa si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo, a tal uopo, tenersi in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente ex articolo 5 della citata legge 604/66, deve essere valutato in considerazione precipua della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’articolo 1455 Cc, sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto lavorativo (Cassazione 444/03).

Anche sotto tale profilo, l’articolo 1 della legge 604/66 ‑ con l’indicazione della nozione di “giusta causa” del licenziamento e del presupposto del carattere di “proporzionalità” tra il fatto addebitato e la sanzione inflitta ‑ rientra nell’ambito delle “norme elastiche” [e di quelle (ad esse connesse ma con le stesse non confondibili) rientranti nella nozione di “clausola generale”], cioè delle norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un’opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione. Per vero deve precisarsi che l’applicazione delle disposizioni formulate in virtù dell’utilizzo di concetti giuridici indeterminati non coinvolge un mero processo di identificazione dei caratteri del caso singolo con gli elementi della fattispecie legale astratta e richiede, invece, da parte del giudice l’esercizio di un notevole grado di discrezionalità al fine di individuare nella specifica fattispecie concreta le ragioni che ne consentano la riconduzione alle nozioni usate dalla norma. Entro siffatta valutazione il giudice, oltre a risolvere la specifica controversia, partecipa in tal modo alla formazione del concetto (e, cioè, alla sua progressiva definizione in relazione al valore semantico del termine), con la precisazione che il significato adottato non può prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti all’interno di una data comunità in una certa epoca storica e, sotto concorrente profilo, dai principi generali (specie di rango costituzionale) propri dell’ordinamento positivo.

In particolare, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito, che, nell’applicare clausole generali come quella dell’articolo 2119 Cc in tema di licenziamento disciplinare, detta una tipica “norma elastica”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare in cui la concreta fattispecie si colloca; più specificatamente, è censurabile il metodo applicativo seguito da giudice di merito, ove questi abbia trascurato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore, protetto dall’articolo 4 Costituzione, con quello dell’impresa datrice di lavoro, tutelato dall’articolo 41 Costituzione, bilanciamento che in materia di Iicenziamento disciplinare si riassume nel criterio, dettato dall’articolo 2106 Cc, della proporzionalità della sanzione disciplinare all’infrazione contestata, e, analogamente, se, in relazione all’esigenza di conformazione agli ulteriore standard valutativi rinvenibili, oltre che nella disciplina collettiva, anche nella coscienza sociale (con esclusione comunque di quelli fondati su vaghi criteri moralistici o politici), abbia dato acritico rilievo alla astratta qualificabilità come infrazioni di determinati comportamenti, senza la necessaria considerazione degli elementi soggettivi e della concreta incidenza pregiudizievole sulla sfera del datore di lavoro.

Conclusivamente, sull’approccio in generale alla questione de qua, la verifica giudiziale sulla correttezza dell’espletamento del procedimento disciplinare in tutte le sue fasi e sulla sussistenza del presupposto della giusta causa di licenziamento, riguardo ai profili valutati nel giudizio di merito siccome applicativi di “norme elastiche”, è soggetta sicuramente a controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge: in adesione cosi all’orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenze di questa Corte 10514/98 e 434/99, non ritenendosi condivisibile il contrario indirizzo espresso nelle sentenze 2616/90 e 154/97, in quanto, nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una “norma elastica” (che, per la sua stessa struttura, si limita ad indicare un parametro generale), il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile (“elastica”) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge richieda tale elemento: di conseguenza, la valutazione di conformità dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida.

In ogni caso, quando le ragioni addotte dal giudice di appello per pervenire ad una decisione sanzionante la validità di un licenziamento assunta sulla base di un procedimento disciplinare di cui è stata contestata la legittimità sono state sviluppate giusta un percorso argomentativo caratterizzato da carenze motivazionali, il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione non si esaurisce in una verifica di correttezza dell’aspetto formale diretto a verificare il contenuto della norma, ma è esteso alla sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa (Cassazione Su 5/2001) e, comunque, spetta al giudice di legittimità il controllo sulla logicità della motivazione della decisione del giudice del merito (Cassazione 16805/02).

- Tanto precisato in linea generale, si conferma, al fine di inquadrare la fattispecie nell’ambito dei cennati principi, la fondatezza della censura della ricorrente sul punto che il Giudice di appello sia incorso in decisivi errori nella valutazione complessiva del provvedimento disciplinare e della sua legittimità, specie sotto il profilo della corretta verifica del fondamentale presupposto sancito ex lege di proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione espulsiva irrogata.

A tale riguardo si rileva che nella sentenza impugnata:

a) viene riportata la disposizione dell’articolo 148 del Ccnl applicabile nella specie che sancisce l’obbligo per il lavoratore di “giustificare per iscritto la assenze entro le 48 ore” e “nel caso di assenza non giustificata il diritto dell’imprenditore di operare la trattenuta di tante quote giornaliere dalla retribuzione di fatto quante sono le giornate di assenza, salva l’applicazione della sanzione prevista dal successivo articolo 151”, disposizione quest’ultima che “commina il licenziamento disciplinare nell’ipotesi di assenza giustificata oltre tre giorni nell’anno solare”;

b) è stata considerata quale infrazione sanzionata con il licenziamento il ritardo del Buanne nella giustificazione dell’assenza (lettera: «la mancata giustificazione dell’assenza protrattasi per oltre tre giorni costituisce inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare con il licenziamento»), e non l’assenza ingiustificata di per sé (che, anzi, è ritenuta comprovata: lettera «necessità, evidenziata nella certificazione medica, di una assistenza domiciliare continua da parte dei genitori»).

Dai cennati rilievi appare evidente come la Corte territoriale non si sia data carico di distinguere tra ritardo nella giustificazione dell’assenza e assenza ingiustificata, nonostante che la prima ipotesi configurasse certo una infrazione meno grave della seconda, sebbene, vale rimarcarlo, anche l’infrazione tipizzata in sede di contrattazione collettiva di “assenza ingiustificata di tre giorni nell’anno solare” può non legittimare un licenziamento disciplinare sotto il profilo della proporzionalità tra infrazione e sanzione (sempre se il datore di lavoro non comprovi che, data l’assoluta peculiarità della prestazione lavorativa del dipendente assente, la relativa assenza ingiustificata per un breve periodo di tempo possa provocare obiettive conseguenze negative al ciclo produttivo aziendale).

La Corte di appello di Napoli è, quindi, incorso in decisivi errori mediante, altresì, un percorso argomentativo caratterizzato dalle cennate carenze motivazionali, nelle valutazioni della gravità dell’infrazione addebitata al lavoratore e, in particolare, nella mancata disamina di un effettivo riscontro di sussistenza nella specie della necessaria proporzionalità del licenziamento disciplinare all’effettivo addebito.

Per pervenire a siffatta errata decisione la Corte territoriale non ha considerato, per ribadire qui i principi immotivatamente trascurati, che il licenziamento disciplinare, come ogni altra sanzione disciplinare, deve rappresentare una conseguenza proporzionata alla violazione commessa dal lavoratore; anzi, in ragione del fatto che il licenziamento disciplinare costituisce la più grave delle sanzioni, occorre che la mancanza di cui il dipendente si è reso responsabile rivesta una gravità tale che qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro (Cassazione 4138/00). Per cui il licenziamento disciplinare può considerarsi legittimo solo se, valutando ogni aspetto del caso concreto (sia nel suo contenuto oggettivo che sotto il profilo psicologico), la mancanza del lavoratore si riveli di tale gravità che ogni altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro, nonché sia tale da far venir meno l’elemento fiduciario costituente il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti del rapporto di lavoro (Cassazione 6216/98), atteso, altresì, che il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostante del caso concreto, all’entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al contesto in cui essa è stata posta in essere), ai moventi, all’intensità dell’elemento intenzionale e al grado di quello colposo (Cassazione 4881/98).

In ogni caso, il requisito della proporzionalità ha una valenza particolare nel caso del licenziamento disciplinare perché, costituendo questo pur sempre un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, le parti contrattuali nel raccordare gli illeciti alle sanzioni e, quindi, nel definire il codice disciplinare godono di una minore autonomia negoziale considerato che la nozione di giusta causa e di giustificato motivo oggettivo è inderogabilmente fissata (seppur in termini generali) dalla legge. Segnatamente la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante l’inderogabilità della disciplina del licenziamento, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all’articolo 2119 Cc, e se, in relazione al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore, salvo il caso in cui il trattamento contrattuale sia più favorevole, al lavoratore. Con riferimento a tale principio questa Corte ha affermato che le clausole della contrattazione collettiva che prevedono per specifiche inadempienze del lavoratore la sanzione del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo non esimono il giudice dall’obbligo di accertare in concreto la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente nonché il rapporto di proporzionalià tra sanzione e infrazione (Cassazione 13983/00, 8139/00, 1604/98).

- In definitiva, sulla base delle considerazioni svolte e restando assorbita ogni ulteriore censura, la sentenza impugnata deve essere cassata entro i limiti suindicati, con rinvio della causa ad altro Giudice, che si designa nella Corte di appello di Salerno, perché proceda al riesame della controversia sulla base di una corretta valutazione del principio di proporzionalità tra infrazione effettivamente commessa dal lavoratore e sanzione disciplinare legittimamente il licenziamento attenendosi ai criteri precisati al punto di cui sopra e dando poi corretta motivazione al conseguente decisum.

Il Giudice del rinvio provvederà, altresì, in ordine alle spese del giudizio di cassazione (articolo 385, comma 3 Cpc).

PQM

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Salerno.

Oblò, Appunti e Spunti, 2006-01-18


 Claudio Palestini

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