La bella inconsapevolezza del musicista-artigiano: intervista a Niccolò Fabi
di Pierluigi Lucadei
Cresciuto con la musica nel sangue, con un padre produttore, una chitarra a tracolla e tanti capelli ribelli, formatosi in quel laboratorio di talenti che è stato Il Locale di Roma, dove negli stessi anni si incontravano i vari Silvestri, Gazzè, Britti, Zampaglione, Sinigallia, Niccolò Fabi è un autore che in tre lustri di carriera ha saputo conquistare, passo dopo passo, la stessa credibilità che si riserva ai grandissimi, rimanendo legato alla tradizione e a suoni discretamente vintage e, allo stesso tempo, allontanandosene con un gusto per la ricerca mai domo. A tre anni di distanza da Novo mesto, è ora tornato a far parlare di sé con la pubblicazione del sesto album, Solo un uomo, uno straordinario ritratto, in versi e musiche d’altri tempi, di un uomo libero e coerente, di un artigiano della canzone che non intende piegarsi alle logiche dello show-business, un giardiniere col talento di far germogliare, da emozioni semplici e disarmanti, petali di rara bellezza come Attesa e inaspettata, La promessa, Successo, La mia fortuna, solo per citare alcune delle canzoni più riuscite del nuovo lavoro. Abbiamo parlato con Niccolò di Solo un uomo e non solo in un appartamento di San Frediano, a Firenze, dopo l’house concert organizzato da SalottoLive, la sfida di Claudio Ripoli e Paola Iafelice di portare gli artisti e il pubblico sullo stesso palcoscenico in un ambiente intimo come quello domestico.
Chi è l’uomo del titolo? E’ tante cose insieme. E’ evidente che dietro ogni essere umano ci siano tantissime sfaccettature, alcune molto comuni, altre che riguardano solamente quell’individuo. Che io canti «è solo un uomo quello di cui parlo» non esclude affatto che in lui ci siano le ambizioni e le aspirazioni di ogni essere umano, anzi.
Ha un significato particolare il fatto che Solo un uomo sia il tuo primo disco da quarantenne? Direi proprio di sì, l’età influisce e lo fa in molte maniere. È indubbio che ci sia un’evoluzione naturale del tuo modo di pensare a seconda di quanti giri di campo hai fatto, di quanti giri il tuo sangue ha fatto in tutte le tue vene, quindi direi che il disco rispecchia per forza di cose la mia età.
C’è una canzone, Attesa e inaspettata, che dura sette minuti e che denota una gran voglia di liberarsi dagli schemi classici della canzone d’autore e più in generale da qualsiasi schema imposto. E’ tra le mie preferite, mi piacciono molte cose che ci sono dentro questa canzone. C’è una prima parte in cui è più centrale il testo, e una seconda parte altrettanto importante come peso e come tempo in cui lo stesso concetto viene raccontato dalla musica, dal desiderio di suonare e di lasciarsi andare a tutte le cose che la musica può evocare. E’ una canzone che non implica per forza la voglia di uscire dagli schemi, forse molto più semplicemente c’era in me la voglia di seguire tutto ciò che la canzone poteva dire.
La promessa, invece, è una splendida canzone d’amore. Hai un modello di canzone d’amore e un autore in particolare nel tuo cuore? Sicuramente Fossati ha un modo di raccontare l’amore e non solo l’amore che è più vicino a me. Tra i classici, il suo modo di raccontare è quello che sento più mio.
Ora che nomini Fossati, mi fai venire in mente due versi del disco, «amare è un verbo transitivo/deve transitare», che mi hanno fatto immediatamente pensare a Fossati la prima volta che li ho ascoltati. Sì, e non credo che siano gli unici versi del disco in qualche maniera riconducibili al modo di scrivere di Fossati. Ci sono tracce della sua sintassi nel mio modo di raccontare alcune cose, lo trovo a me molto affine. Se devo trovare un punto di riferimento, soprattutto a livello di testi, direi senz’altro lui.
Che riflessione hai voluto racchiudere dentro Successo? Successo è una parola che io detesto, specie quando gli viene dato un unico connotato, come se noi potessimo considerarci persone di successo solo nel momento in cui raggiungiamo un tipo di obiettivo. Trovo invece che la diversificazione delle ambizioni sia fondamentale, perché ciò che può essere importante per me può benissimo non esserlo per te. In questo senso mi è venuta la voglia di considerare successo il participio passato del verbo succedere e null’altro.
Mi pare che tra i vari piani testuali del disco ci sia quello della rivendicazione di una certa indipendenza da parte tua, della voglia di andare avanti per la tua strada senza la pretesa di piacere a tutti. E’ corretta la mia percezione? Sì, e si collega al discorso dei quarant’anni probabilmente. Dopo una certa età ti rendi conto che è veramente tempo perso andare a inseguire il gusto degli altri. Secondo me è fondamentale essere chiari, riconoscibili, ognuno a proprio modo, dare agli altri il tempo e il modo di capire se la cosa possa piacere, ma poi andare avanti comunque. Dopo un po’ ti viene naturale restringere il campo, non per limitarti ma per avere un’identità più chiara. Questo, secondo me, è fondamentale.
Di recente, se i giornali hanno riportato le cose in modo corretto, ti sei pronunciato contro i cosiddetti talent show. Quanto fanno male alla musica e a chi fa musica da artigiano quei programmi? Non sono tanto i talent show a fare male, a fare male è il fatto che ci siano soltanto quelli, l’assenza di altro, di un altro tipo di programma musicale, in cui l’artista possa presentare le proprie idee, le proprie canzoni, senza dover per forza cadere vittima di quel meccanismo in cui si suonano prima le canzoni di altri, poi ci si mette l’uno contro l’altro, poi si viene giudicati da giudici che sono l’uno contro l’altro, poi c’è il televoto, tutto ciò con la musica non c’entra niente. Programmi come X Factor non fanno che sottolineare la mancanza di programmi di musica in cui l’artista non sia costretto a fare altro, in cui possa suonare e basta. Invece oggi, purtroppo, ti devi prestare a tutto il resto. Se c’è la trasmissione comica che ti ospita, ti devi mettere a fare le gag con il comico. Mi chiedo perché. Mi dispiace davvero che la musica sia prona in maniera così passiva alle esigenze della televisione.
Il brano che dà il titolo al disco è stato rifiutato da Sanremo. Che spiegazione ti sei dato dell’esclusione? Mah, direi che è molto chiara… è evidente che il Festival, essendo un programma televisivo, proprio per ricollegarmi alla domanda precedente, debba essere adatto a tutte le fasce d’età, debba presentare un cast che possa piacere a tutti e in questo senso si spiegano tali scelte.
Considerata la tua crescita artistica, il fatto che dieci anni fa i tuoi pezzi venivano scelti e andavano bene al Festival di Sanremo è un segno di come la manifestazione si sia fatta aderente in modo molto pericoloso al piattume generale? Non lo so, sicuramente i miei pezzi sono sempre meno festivalieri, mentre in passato almeno per un anno o due involontariamente lo sono stati, perché mediaticamente ero più appetibile. Non lo so. Adesso ho altre gratificazioni. Un’esibizione come quella di questa sera posso considerarla più importante di una partecipazione a Sanremo. Ripeto, ognuno cerca le proprie soddisfazioni.
Perché dopo una generazione come la tua che è stata fin troppo generosa di cantautori, dalle generazioni successive non sono venuti fuori – tranne qualche rarissimo caso – autori di talento? Molto banalmente si può dire che la crisi generale della discografia mortifichi chi ci deve provare. Allo stesso tempo è innegabile che la forma canzone sia ora in fase calante, se non altro perché come tutti i movimenti culturali ha avuto il suo apice e poi il suo momento di decadenza. Bisogna aspettare probabilmente un nuovo inizio o una nuova forma musicale perché venga fuori il vero talento.
Cosa c’era di irripetibile negli anni Novanta che poi si è irrimediabilmente perso, a livello discografico e non solo? Negli anni Novanta c’è stata l’ultima coda degli investimenti da parte delle case discografiche sugli artisti. Indubbiamente quell’aspetto conta moltissimo per farti conoscere. Poi, c’era ancora una non totale consapevolezza da parte degli artisti su ciò che stavano facendo… adesso i ragazzi che partecipano a quei programmi di cui parlavamo prima sanno fin troppo bene quali sono le regole del mercato, quali sono le strategie commerciali, come deve essere un singolo estivo, come si deve strizzare l’occhio al produttore. In tutto questo la bella inconsapevolezza che fa bene alla musica s’è persa.
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