L’ENIGMA DEI BRONZI DORATI DA CARTOCETO
Quello che si nasconde dietro al celebre gruppo equestre dei Bronzi Dorati da Cartoceto di Pergola, uno dei complessi archeologici più prestigiosi delle Marche, è un vero e proprio enigma. Lo straordinario ritrovamento archeologico, avvenuto più di 60 anni fa, presenta infatti a tutt’oggi problematiche irrisolte sia di tipo stilistico-iconografico sia di rapporto storico-archeologico con il territorio su cui si continua a indagare.
La mostra di Montréal, oltre ad essere un’occasione per promuovere e far conoscere il patrimonio archeologico marchigiano e nazionale, potrebbe costituire un’opportunità per riproporre all’attenzione degli esperti questo eccezionale reperto e riaprire un dibattito scientifico coinvolgendo studiosi che si siano già occupati del problema ed altri esperti di settore di livello internazionale.
La storia dei Bronzi riporta indietro nel tempo, al giugno 1946, quando furono rinvenuti casualmente in località di S. Lucia di Calamello, presso Cartoceto, in Comune di Pergola (Prov. di Pesaro e Urbino) da Giuseppe e Pietro Peruzzini, nel corso di lavori agricoli.
Fu immediatamente avvisata l’allora Soprintendenza alle Antichità delle Marche. I Bronzi furono recuperati e trasferiti al Museo Nazionale di Ancona tramite l’Ispettore Onorario di Fossombrone, Canonico Mons. Giovanni Vernarecci. In tale occasione furono effettuati anche saggi di scavo, per comprendere le modalità di seppellimento dei frammenti componenti il gruppo e per ricostruire un loro eventuale contesto archeologico. Indagini che però, come quelle ripetute nel 1958, non dettero alcun risultato, tranne quello di accertare che i reperti erano stati deposti unitariamente, in epoca imprecisabile, ammassati in una fossa appositamente scavata nel terreno, a non grande profondità.
Il complesso è stato poi oggetto di vari restauri ed esposizioni. Il primo restauro fu condotto, tra il 1948 e il 1959, dal noto fonditore artistico e restauratore fiorentino, Bruno Bearzi, e a cui seguì l’esposizione, fino al 1972, nel Museo di Ancona, interrotta dagli eventi sismici di quell’anno, che resero inagibile la sede espositiva. Il secondo e più importante intervento conservativo, fu condotto con nuove metodologie tra il 1975 e il 1986 presso il Centro di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, al termine del quale fu realizzata nel 1987 una grande mostra nel Museo Archeologico di Firenze e un’adeguata edizione scientifica.
Il gruppo scultoreo, a lungo conteso tra Ancona, sede istituzionale ed originaria, e il Comune di Pergola, luogo del ritrovamento, dal 1999 è esposto nella sede del “Museo dei Bronzi Dorati e della città di Pergola” grazie all’accordo programmatico intercorso per iniziativa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche.
Due serie di copie del gruppo, l’una identica agli originali, l’altra ricostruttiva che mostra le opere come dovevano presentarsi al momento della loro messa in opera, si trovano attualmente presso il Museo Nazionale di Ancona.
Fin qui la storia nota. Il resto è avvolto nel mistero. Molte sono le ipotesi fatte sull’origine dei Bronzi. Per Sandro Stucchi, la figura femminile di cui si conserva il volto rappresenta Livia, già moglie di Livio Druso e poi di Augusto, e madre di Tiberio, mentre il cavaliere sarebbe Nerone Cesare, lo sfortunato figlio di Germanico caduto in disgrazia, ad opera del tirannico reggente Seiano, insieme con il fratello Druso e la madre Agrippina, nel 28 d.C.; le figure mancanti dovevano identificarsi appunto con i due ultimi personaggi citati. Sempre secondo questo autore, il gruppo, originariamente collocato in uno dei centri romani vicini alla località di rinvenimento (Sentinum – Sassoferrato, Forum Sempronii – Fossombrone, o Suasa – Castelleone di Suasa) oppure in uno di quelli costieri (Fano, Pesaro), sarebbe stato, a seguito di tale sfortuna politica, distrutto e sepolto per una abolitio o damnatio memoriae.
Altre ipotesi caratterizzano il gruppo scultoreo come monumento onorario di una famiglia d’alto rango, quasi certamente senatorio, sufficientemente abbiente da permettersi la realizzazione di un gruppo simile, e nella quale le donne avessero o avessero avuto un ruolo non secondario. Su questa linea si muovono John Pollini e Filippo Coarelli che hanno successivamente reimpostato il problema datando il gruppo nel I secolo a.C., tra gli anni 50 e 30, ossia, tra l’età cesariana e gli inizi di quella augustea. Per Coarelli, la famiglia doveva essere di origine locale, di un territorio prossimo al luogo di ritrovamento, lo studioso propone di identificare in uno dei due personaggi maschili Marco Satrio, noto, oltre che dalle fonti letterarie, da iscrizioni di Suasa e di Sentinum, definito “patronus agri Piceni”, luogotenente di Giulio Cesare in Gallia ma poi tra i congiurati che lo uccisero; egli pervenne all’ordine senatorio tramite l’adozione da parte dello zio materno Lucio Minucio Basilio, originario di Cupra Maritima, adozione patrocinata dalla madre, sorella di quest’ultimo. Coarelli ipotizza anche che il gruppo, raffigurante appunto i personaggi citati, si trovasse a Sentinum, dove, presa la città da Ottaviano nel 41 a.C., sarebbe quindi stato distrutto per motivi politici, e seppellito a Cartoceto. John Pollini propone invece di attribuire il gruppo ai Domizi Enobarbi, antichissima, celebre e doviziosa famiglia romana, proprietaria di sterminati possedimenti terrieri, confluita poi in quella imperiale giulio-claudia; i personaggi proposti sarebbero Gneo Domizio Enobarbo, console nel 32 a.C., con sua madre Porcia, la moglie e il padre Lucio Domizio.
In realtà, l’enigma rimane irrisolto, come il quesito sulla fine del gruppo, se essa debba attribuirsi ad una volontà di obliterazione dei personaggi oppure a un saccheggio avvenuto in un’epoca imprecisabile e a un accantonamento dei rottami in un “ripostiglio” posto in una località priva in se stessa di presenze romane ma non distante da importanti vie di comunicazione.