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“Conor Oberst” (Merge, 2008) |
Conor Oberst “Conor Oberst”
Etichetta: Merge Brani: Cape Canaveral / Sausalito / Get Well Cards / Lenders In The Temple / Danny Callahan / I Don’t Wanna Die (In A Hospital) / Eagle On A Pole / NYC-Gone, Gone / Moab / Valle Mistico (Ruben’s Song) / Souled Out !!! / Milk Thistle
Cambia la sigla, anzi la sigla sparisce, rimane solo il nome di battesimo, ma la sostanza cambia poco. C’è sempre, qui come sotto il marchio Bright Eyes, il cuore tagliato di Conor, il suo lirismo e i suoi moti di abbandono, le sue fughe scalpitanti, i dolori, le malinconie. Rispetto all’ultimo “Cassadaga” le canzoni suonano più spoglie, arrangiate per difetto, aggiungendo poco o anche niente al binomio voce/chitarra: e funzionano eccome nude così, Lenders In The Temple lo dimostra in modo inequivocabile, con un arpeggio che accompagna come un controcanto i versi virati al blu e gli echi di sentimenti mai pacificati («the crystal city’s gonna fall apart/when all their power turns into vapor/if I miss you well that’s my fault/that’s my fault, that’s my fault»). Proprio Lenders In The Temple può apparire, al primo ascolto, la gemma più luminosa tra le nuove composizioni di Conor, ma è l’album nel suo insieme a funzionare in modo perfetto, dall’iniziale – maravigliosa – Cape Canaveral, ballata ciondolante che ti si attacca addosso con la sua malinconia da stagione caduca («I watched your face die backwards/little baby in my memory/you told me victory’s sweet/even deep in the cheap seats») alla conclusiva Milk Thistle, caratterizzata da una rarefazione e da una precisione lirica degne del maestro Leonard Cohen («I’m not scared of nothing/I’ll go pound for pound/I keep death on my mind/like a heavy crown»). Registrato in Messico tra gennaio e febbraio di quest’anno, l’album mostra la versione menestrello dell’artista, capace di avvicinarsi come mai a Dylan (Get Well Cards) e di confezionare un inno solare e stradaiolo in un modo che piacerebbe tanto a Tom Petty (Sausalito). Non mancano l’ironia di un pezzo recalcitrante come I Don’t Wanna Die (In A Hospital) o il ritmo irresistibile di una marcetta elettrica e veloce come NYC-Gone, Gone. Chi cerca novità, certo, non ne troverà in un disco di questo tipo, che rischia di suonare noiosamente tradizionale e fin troppo povero. Ma neanche ai soli amanti del folk-rock USA ci sentiamo di consigliare “Conor Oberst”. Come ben sa chi ormai da anni è affezionato alla musica di Conor, spesso un suo ritornello spiega la bellezza delle emozioni al cuore di chi ascolta meglio di tanto clamore sconclusionato che qualcuno chiama talento: nella penna(ta) dell’ex enfant prodige di Omaha abita da sempre un talento purissimo, come ce ne sono davvero pochi in circolazione. E’ a tutti quelli che in musica cercano uno sguardo profondo, un taglio sincero e una voce che non si vergogna di spezzarsi in due dalla commozione che consigliamo “Conor Oberst” e, magari, partendo da qui, tutti gli altri lavori che lo hanno preceduto.
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Pierluigi Lucadei
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Recensioni |
Articolo letto 155 volte. |
il 04 Oct 2008 alle 22:18 |
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