Lele Battista “Le ombre”
«Descrivi questo attimo/tu che distingui il bene dal male/e del mio quotidiano affanno/qualcosa sappimi dire»
“Le ombre” è l’esordio solista di Lele Battista, già cantante dei La Sintesi, quelli che ad un Festival di Sanremo di qualche anno fa colpirono l’attenzione di molti col brano Ho mangiato la mia ragazza. Quasi un concept, col tema delle ombre – interiori, esteriori, vere, apparenti – che ricorre in molte delle undici splendide tracce. Già, perché una caratteristica del disco che salta subito all’orecchio è la mancanza di un pezzo brutto. Lontano dalla via ironica e stralunata al songwriting dei vari Gazzè, Silvestri, Bersani, ma anche dalla poesia sofferta degli iper-sensibilisti (Benvegnù, Parente), l’artista milanese con “Le ombre” intraprende un percorso che lo avvicina semmai agli album solisti di Morgan e Luca Gemma, milanesi come lui, con una band lasciata alle spalle come lui, con nel cuore una malinconia che sembra vitale, proprio come lui, e non sbaglia un colpo. L’aggettivo vitale non è usato a caso: si avverte nel disco un’urgenza che spesso difetta nei giovani musicisti di casa nostra e in ogni momento si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un artista che, tenuto con l’acqua alla gola dai propri tormenti, vive grazie allo stretto necessario, dal quale non ce la fa proprio ad escludere le sue canzoni. Come quando «la passione non ti fa sentir la fame».
La voglia di stare con te, brano che apre il disco e anche primo singolo, rende subito chiara la cifra stilistica di Lele: l’amore cantato con trasporto, dolcezza e forza ben calibrate, un tocco di synth anni Ottanta e un ritornello che cattura. Non sono da meno Tutto strappato, commovente istantanea sulla nascita di un amore («è tutto così bello/che mi sembra quasi/di doverci rinunciare/tutto destinato/a ritornare normale»), e Piove, che racconta la volontà di allontanare le illusioni e le paure («dal monte del mio pensiero/scendo a valle verso le paure»), magari con l’aiuto di un’acqua salvifica e liberatoria («poi piove sempre/nella mia mente/tutto si allaga/e la bufera/porta lontano i pregiudizi»). Ma è nel finale che l’album subisce un’impennata vistosa, con gli ultimi quattro pezzi di una bellezza assoluta. Intese è una matura e ispirata riflessione sulle trame dei rapporti interpersonali («forse non siamo due eroi/ma amiamo immaginarlo»). Passeggiare è un altro inno a lavarsi di dosso le contraddizioni del nostro tempo («dici che fuori di qua/si può incontrare una tempesta/da cui è bello non ripararsi»). E a stagliarsi sopra tutte le altre sono in particolare due canzoni che già dal primo ascolto pongono la loro candidatura a canzoni italiane dell’anno: Quando mi mento, ballata dai mille sapori con dentro echi di band emozionali di casa Mescal (Mambassa, Perturbazione) e un testo di delicata poesia («con qualche invenzione/mi farai capire/che è meglio il disordine/dell’ordine imposto/e il male che faccio/quando mi mento»); e poi Trieste, con la sua purezza quasi liederistica, almeno fino al finale in crescendo, dove dominano le chitarre fuzz di Raffa Stefani e pare quasi di ascoltare il suono del vento e del vetro evocati nel testo: forse non è una canzone pacificata, ma il sentimento che sembra scaturire nitido dal suo ascolto è quello della felicità.
Etichetta: Mescal Brani: La voglia di stare con te / Le ombre / Amore folle / Tutto strappato / Piove / La caverna / L’odio / Quando mi mento / Intese / Trieste / Passeggiare Produttori: Lele Battista, Giorgio Mastrocola, Celso Valli
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