The Elected “Sun, Sun, Sun”
“Sun, Sun, Sun” è il secondo disco che Blake Sennett dei Rilo Kiley incide col suo progetto parallelo, The Elected, dopo l’acclamato esordio di due anni fa, “Me First”. Il disco si apre con una traccia brevissima, “Cloud Parting”, che racconta di un uccellino che non riesce a volare a causa di un’ala ferita, ma «può ancora cantare»: Blake sussurra su una melodia immaginifica fatta di arpa, cembali, piano e cinguettio di uccelli. Sembra di essere in una delle favole meno nere di Tim Burton o, se preferite, in un cartone animato Disney, ma è solo l’introduzione. E’ la seconda traccia, “Would You Come with Me”, che ci rivela il vero contenuto del disco: indolenza e malinconia in dosi equimolari per un invito in punta di plettro a fuggire via («penso che potrei partire subito se tu venissi con me») dopo una notte insonne. Ci puoi sentire echi di west coast e di certo country da lonesome cowboy col capellaccio in testa e il mozzicone in bocca: la chitarra slide di Mike Bloom parla in tal senso, ha il sapore del whisky liscio sorseggiato sotto un tramonto che brucia gli occhi ed è il filo rosso che tiene uniti molti degli episodi di “Sun, Sun, Sun”. “Fireflies in a Steel Mill” è una ballata pianistica dallo splendido arrangiamento, con tanto di fiati e mood tipicamente anni settanta. “It was love” racconta l’imprudenza che ci fa gettare via la persona che con cui abbiamo condiviso qualcosa di importante, nonostante fosse amore, o almeno «la cosa più vicina che ho avuto». Blake ha una voce particolare, né bella né brutta, di sicuro capace di far emozionare. Una voce che alimenta per tutto il disco il suo lirismo doloroso e riflessivo, pur nella dicotomia, come dicono alla Sub Pop, tra “il sentirsi completamente a casa e, allo stesso tempo, senza una casa, sulla strada”. Il disco sembra vivere, infatti, momenti diversi, alcuni in cui è troppo elegante e confidenziale, altri dove il gioco si fa più sporco. E proprio in questi ultimi, quando Blake decide di alzare la voce, di farsi eccessivo, di ululare come un ubriaco, ci sono le cose migliori. Due episodi su tutti. In “Not Going Home” è nascosta l’America nella sua dimensione più vasta, alleggerita da una scrittura felice («ti guardo e sono lì/sì, quando ti guardo sono lì/…/non sto andando a casa/ci sono già») e da un controcanto sognante e quantomai efficace. E quanti american dreams si sono dati appuntamento dentro “Biggest Star”? Ci sono proprio tutti, Gram Parsons, Eagles, Randy Newman, Bruce Springsteen, per sette minuti e diciassette secondi che sarebbero stati perfetti per “The Wild, the Innocent & the E-Street Shuffle”, l’album più sperimentale del Boss. Ecco, anche chi davanti al romanticismo di “It Was Love” e “I’ll Be Your Man” non può fare a meno di storcere il naso, non dovrebbe mancare per nessuna ragione l’ascolto di “Biggest Star”. Nella modesta visione delle cose rock del sottoscritto, è la migliore canzone degli ultimi mesi, la più travolgente. «Sono la più grande stella che ti capiterà mai di vedere/così, vai pure/ma sappi che ti mancherò/ti lascerò scegliere la via che preferisci/tesoro, io non posso perdere», serve altro? Brani: Clouds Parting (8:14 a.m.) / Would You Come with Me / Fireflies in a Steel Mill / Not Going Home / It Was Love / Sun, Sun, Sun / Did Me Good / The Bank and Trust / Old Times / Desiree / I’ll Be Your Man / Beautiful Rainbow / Biggest Star / At Home (Time Unknown) Produttori: Blake Sennett & Mike Bloom Etichetta: Sub Pop Pierluigi Lucadei Recensioni – martedì 31 gennaio 2006, ore 18.46
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