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'El Diablo', Piero Pelù

L’equilibrio ideale di Piero Pelù

Migliore album del Pelù post-Litfiba, “In faccia” è un lavoro che segna il ritorno all’essenzialità del rock: chitarra, basso, batteria e testi ispirati che trattano argomenti strettamente legati all’attualità come immigrazione, mafia, pena di morte, emarginazione. Anticipato dall’energico singolo “Tribù”, l’album segna anche la riscossa di una vocalità ruvida e magnetica, troppo spesso arresa, in anni recenti, alle moine del pop. La voce di Piero Pelù è il rock italiano e finalmente ha ripreso a graffiare.

“Tribù” è il singolo che ha lanciato l’album: qual è il tuo concetto di tribù?
Il concetto di tribù può avere due accezioni. Quella restrittiva, che è sinonimo di clan, di un gruppo di persone che si associano tra loro per un qualche interesse. E l’accezione legata all’appartenenza: di questa parla la canzone, del sentire di far parte di un nucleo. Ci sono tanti tipi di nucleo. C’è per esempio il nucleo famigliare. In “El Diablo” dicevo «della famiglia io sono il ribelle» ma, pur essendo molto fiero di quel verso, da lì ho avuto un’evoluzione, ho riscoperto il rapporto con i miei genitori, mi piace quando mio padre mi racconta le sue storie; e mi piace anche sentire le storie delle figlie, i racconti delle loro piccole esperienze con gli amici.
Nel disco torni a rivolgerti a Firenze, molti anni dopo “Firenze sogna”, nel brano “Velo”, che parla di immigrazione…
La canzone nasce dalla delusione di non poter comunicare certe cose importanti e c’è la metafora del velo, che non è qualcosa di estraneo, ma rientra anche in una mentalità occidentale come la nostra. La canzone dice «io ci sono perché ci credo/ci sono anche se non ti vedo/nascosto dietro il tuo velo».
Poi c’è una canzone, “Grand Hotel La Muerte”, che chi ha avuto la fortuna di assistere al concertone contro la pena di morte dello scorso anno conosceva già. Cosa ricordi di quella serata? E cosa puoi dirci della canzone?
La sera del 28 novembre scorso ho cercato di far coesistere sul palco delle realtà musicali assolutamente improbabili e diversissime tra loro. Il culmine fu la jam session finale con “Il mio nome è mai più” che, anche se è un pezzo ispirato ai bombardamenti in Kosovo da parte della NATO, è sempre attuale. “Gran Hotel La Muerte” è la storia di un condannato a morte che dice di sentirsi in bilico tra giudizio e pregiudizio, due concetti che possono essere molto spietati e che condizionano il nostro quotidiano. Anch’io a volte mi accorgo di cadere nel tranello del pregiudizio e di giudicare certe persone, o le cose che fanno, prima di averle conosciute direttamente. Purtroppo siamo un po’ tutti giudici del nostro prossimo e, viceversa, il prossimo è il nostro giudice.
“Lentezza”: hai iniziato a prendere maggior tempo per te stesso?
Sì, sto scoprendo la lentezza, e sto cercando di miscelarla con la grande schizofrenia delle mie giornate. Mi aiuta ad approfondire certe cose. Preferisco rinunciare a qualcosa ma dedicarmi meglio a quello a cui tengo di più. Questo presuppone una selezione, ma non si può pretendere di essere dentro tutte le storie. Una selezione diventa necessaria ad un certo punto, altrimenti rischi di diventare un tuttologo nullologo.
Nell’album ci sono molte ballate, così come ci sono molte ballate nel repertorio dei Litfiba. Hai sempre flirtato con la melodia, ma cos’è per te la melodia?
Se cerco di rappresentarmi la melodia mi viene in mente una linea che si muove nello spazio, seguendo un proprio percorso. La melodia si collega ad un mondo di immagini e ad un mondo di vissuto. Per me è sempre importante, quando decido che una certa melodia è quella giusta per un certo pezzo, che mi permetta di partire per un ‘viaggio’. Poi ovviamente mi piacciono sempre le belle chitarre rumorose, i tamburi ganzi che fanno baccano e i bassi che ruggiscono ed è bello quando una melodia finisce dentro la dimensione del trio rock. E’ quello che sto facendo in questo tour, in cui la formazione è un 3+1, chitarra, basso, batteria e me: riusciamo ad ottenere quella pienezza e quella semplicità di suono che c’è sul disco. Spero che questa sia la direzione che seguirò anche in futuro, perché dal vivo trovo degli spazi per la melodia e per la mia voce che non avevo mai trovato prima.
Che importanza ha per te la memoria? E quanto ti senti in dovere di trasmetterla ai giovani?
Credo che nel rapporto con la memoria il ruolo fondamentale attualmente ce l’abbia la televisione. In altri tempi la memoria veniva tramandata necessariamente a voce, davanti al camino, e veniva in questo modo trasmessa con più efficacia. Oggi ci sono concorrenti fortissimi alla tradizione orale e il primo tra tutti è proprio la televisione. Io non dico di spegnere la televisione ma ai ragazzi consiglierei di ridurre al minimo i danni. Io dico che la cosa più importante sia mantenere un certo tipo di dialogo. Ci sono culture come quella Rom, a cui sono molto affezionato, che non hanno neanche una tradizione scritta e tutto viene trasmesso a voce. Ecco, io non voglio che il compito di raccontare la nostra storia sia delegato esclusivamente alla televisione, soprattutto se fatta in questa maniera. Se potessi fare una raccolta di firme la farei per chiudere tutti i programmi della De Filippi. La cosa che più mi intristisce è vedere le persone disposte a mercificare le proprie emozioni per cinque minuti di notorietà e poi tornarsene al paesello e distruggersi.
Un ricordo dei vostri Anni Ottanta?
In quel periodo irripetibile, negli Anni Ottanta, vivevamo l’incoscienza dei nostri anni, eravamo selvaggi al 100%, e purtroppo qualcuno di noi l’ha pagata cara. Vivevamo nella nostra cantina, in Via dei Bardi, e quel momento lì rimane insuperato. Non avevamo mai avuto la sfiga di finire in classifica, eravamo energia pura, partivamo dal nostro piccolo mondo e così ci esprimevamo. Poi è arrivato il successo e quando ti ci trovi dentro qualcosa cambia, bisogna ammetterlo.
E il momento che stai vivendo?
Ci sono stati tanti momenti in questi 26 anni di musica. Ora, non perché mi ci trovo dentro, ma trovo che questo sia il momento in cui ho raggiunto un equilibrio ideale tra istintualità ed esperienza.

 Pierluigi Lucadei

Interviste

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