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Massimo Volume, 04.12.08 © www.ilmascalzone.it

Massimo Volume @ Flog, Firenze – 04.12.08

FIRENZE – C’è un’emozione rara che serpeggia durante l’attesa e che si palesa con brividi lungo la schiena quando la band sale sul palco. Il numeroso pubblico accorso stasera alla Flog è sorprendentemente trasversale, non ci sono soltanto gli ammiratori della prima ora come era facilmente pronosticabile, ma molti ventenni che all’inizio degli anni Novanta, quando i Massimo Volume si sono formati, erano alle scuole materne. Segno questo di un’aura mitica che da sempre si lega al gruppo bolognese e che, dopo lo scioglimento avvenuto nel 2002, si è accesa di una luce ancora più forte. Da più parti, in questi ultimi anni, si è sentito parlare dei Massimo Volume come del miglior gruppo del rock italiano ever. Nati in un’epoca in cui le parole in musica stavano assumendo una dignità mai avuta fino ad allora, i Massimo Volume, come i Marlene Kuntz, che negli stessi anni stavano uscendo allo scoperto, si fecero notare per la voglia di combinare la sperimentazione sonora figlia degli esempi rumorisitici newyorkesi (dai Velvet Underground ai Sonic Youth) con i tappeti sonori del nascente post-rock e per la voglia di mettere le parole in primo piano. Emidio Clementi, non a caso poi divenuto apprezzato romanziere, ha sempre preferito, ponendosi in questo in direzione opposta alla ricerca poetica di Cristiano Godano, la forma della narrazione cruda, minimale, realistica, necessaria. ‘Ma questo non canta, recita’ mi disse sorpreso un amico che mi accompagnò a vedere i Massimo Volume quasi quindici anni fa in un buco di centro sociale. La voce salmodiante di Clementi, il suo accento marchigiano, la chitarra piena di inventiva di Egle Sommacal, il drumming glaciale di Vittoria Burattini sono presto diventati i marchi di fabbrica di una band dallo stile inconfondibile. Una formula musicale ostica e altra che – caso più unico che raro per un gruppo italiano – ha saputo conquistare maestri avanguardisti come John Cale e Steve Piccolo.

Appena parte il giro di Atto definitivo arrivano le urla del pubblico. Rivedere Mimì Clementi con il basso al collo è un’emozione, la sua ombra si proietta affusolata sul retropalco della Flog e ha movenze lente, eleganti e lente. Il suono della band è compatto, preciso; al trio storico con Sommacal alla chitarra, Burattini alla batteria e Clementi al basso e alla voce si è aggiunto un nuovo (ottimo) chitarrista, Stefano Pilia. Per il tempo delle prime tre canzoni, i versi di apertura – Atto definitivoil periodo in cui componevo atto definitivo fu tra i più difficili»), Il primo Dioc’è forza nella pioggia che bagna il bordo del lavandino e le mie braccia tese, oggi»), La notte dell’11 ottobreimprovvisamente stanotte la stanza s’è riempita dei miei amici d’infanzia») – sono salutati da urla di soddisfazione. Dei tre brani, altrettanti classici del catalogo, quello più coinvolgente è di sicuro Il primo Dio, uno dei migliori pezzi mai scritti dai Massimo Volume, dedicato da Clementi al suo misconosciuto idolo letterario Emanuel Carnevali. Subito dopo Seychelles ’81 dimostra dal vivo un’efficacia diversa e regala qualche minuto di quiete, prima delle esplosioni di rumore bianco de La città morta e prima dello sconquasso provocato da Fuoco fatuo, con quelle chitarre che sono uno splendido mix di acidità e potenza, e quel refrain («Leo, è questo che siamo?») che quasi fa scattare il coro. Durante Dopo che, inno all’anafora dal controverso “Club Privé”, con i versi del Clementi più struggente di sempre («dopo averti fatto spazio nel mio letto/dopo averti fatto spazio nelle mie vene/dopo averti risparmiato quando ero già pronto ad ucciderti/dopo aver preso a morsi i mobili della mia stanza per non ucciderti») vedo che c’è gente sinceramente commossa e ciò la dice lunga sull’empatia che questa musica difficile riesce magicamente a creare tra la band e chi ascolta. Si va avanti su livelli emotivi molto alti, Clementi saluta litaniando Stagioni e Vedute dallo spazio. Tempo un paio di minuti, si riparte coi bis. Ronald, Tomas e io è una sferzata di energia e Manhattan di notte chiude il concerto con le sue parole di straniamento («le cose non riescono a trattenere i colori/dentro questa foto gli oggetti sono solo macchie incerte»), la sua minimalità e il suo senso di vuoto, raccogliendo un lungo caloroso e sincero applauso.
 

 Pierluigi Lucadei

Recensioni

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