BOLOGNA, 21-11-2006. “Partire dalla voce e dai suoi molteplici aspetti, intenderla quale principale mezzo di comunicazione omaggiandola nelle qualità e nei molteplici aspetti in cui si manifesta”.
E’ partendo da tali intenzioni che si snodano i diversi anni di attività curata dal Centro della Voce di Bologna, organizzazione diretta da Lino Britto e che ieri, come ormai usuale nel tempo, ha proposto l’inizio dell’attesa manifestazione che vedrà in rassegna tra l’altro veterani del teatro nazionale e voci illustri della parola italiana, ad omaggiare la centralità della comunicazione vocale come codice genetico della vita. L’apertura del programma 2006 -forte di tre date tra letture, recitazione e cinema- in scena nell’Aula Magna di Santa Lucia, è toccata quest’anno a Giorgio Albertazzi, eclettica personalità dalle mille sfaccettature, e che ieri sera si è cimentato nella lettura di alcuni testi dalle lettere di San Paolo, introducendone il contesto storico, lavorandone il percorso filosofico, adattandone considerazioni personali per una serata tra letteratura, vocazione teologica… e miscredenza. Queste le sue parole al Mascalzone.
Qual è il significato che dà oggi a questo spettacolo?
“Mah, veramente è difficile. Un significato… vedi, io sono profondamente laico, e forse anche dippiù. Non sono gratificato dalla fede, affatto, e come tale non capisco la profonda devozione di alcuni, di coloro che si fidano ciecamente di. Ricordo come da ragazzo quasi riuscissi a provare irritazione per chi riuscisse a credere, una sorta di invidia. Non per questo ho voltato le spalle in maniera categorica. Il mondo del culto, ed ora parliamo di quello cristiano, mi ha sempre affascinato, e sempre ho cercato una sorta di personale soluzione leggendone gli aspetti che di questo più colpivano l’uomo, quelli che più lo attraevano. Semplicemente ciò che facevo era leggerli da un punto di vista diverso. A lungo anni fa mi sono occupato ad esempio di quello che è il protocristianesimo, studiandolo alle radici (ti dico anche che per farlo ho imparato l’aramaico) per capire cos’è che veramente fosse successo, in Palestina, quasi a voler trovare un significato in questa sorta di illusione invisibile alla quale ciecamente ci affidiamo. Come dicevo, leggerli da un punto di vista personale, ed è quello che farò. Il significato di questa sera è forse semplicemente la sapienza di San Paolo, al di là del valore teologico.”
Ho visto delle suore in platea…
“In realtà non sarò affatto blasfemo. Ammetto di non avere una grande simpatia per i Santi, che considero a volte esseri strafottenti ed in qualche modo violenti; però ne ammiro profondamente l’ intelligenza, il sapere che portano dietro alcuni di loro. Saulo Tarso è fra questi, e per questo lo leggerò con la convinzione di aver di fronte un testo, prima che teologico, sapiente”. E poi ancora: “Di San Paolo ammiro l’intelligenza. Sulla sua storia in passato ho scritto anche un testo rimasto inedito, ‘Pilato sempre’ (dal quale è stata tratta la sceneggiatura ‘Verso Damasco’). Mi colpiscono la sua idea di amicizia, e soprattutto di carità, a mio parere da intendere veramente come il vertice della sua predicazione. Inoltre, a livello letterario, le sue parole restano senz’altro un modello di scrittura breve e sapiente, scarna, pulita, che non può non colpire: l’efficacia di un messaggio universalmente aperto, nella semplicità povera di un testo.”
Allontanandoci dalla serata, cosa ne pensa dell’attuale scena teatrale?
“Penso che sia sicuramente un momento molto particolare del teatro italiano, ed in generale di quello europeo. E’ un periodo che potrebbe risultare di forte sviluppo, di rinnovamento e rifondazione. Per far sì che ciò avvenga deve però cogliersi l’attimo, quello che oggi dalla scena viene offerto, altrimenti, non accorgendoci delle buone cose, il tutto potrebbe diventare disastroso. Tipo una barca che se lascia i buoni approdi che oggi ci sono, rischia di andare alla deriva.”
E quali sono questi approdi, oggi, anche in relazione alle stagioni passate?
“Penso che il teatro si sia molto standardizzato in questi ultimi vent’anni. Prendi il grande ‘teatro di regia’, quello del cosiddetto ‘regista signore del regno’: ha un po’ fatto il suo tempo ormai. Seppur lasciandosi alle spalle comunque delle cose molto importanti, ci porta oggi alla luce tracce di soluzioni troppo facili, trovate lì dal peso degli anni passati, ma alle quali non potremo in eterno far riferimento. Collego a questo soprattutto il discorso dei ‘Teatri stabili’, i quali risentono in particolar modo di questo schema burocratico. E’ come se si avesse una continua tendenza ad un teatro stereotipato che con l’andare del tempo, seppur magari ben fatto, risulterà noioso, troppo prevedibile perchè senza rischio, senza niente di dionisiaco dentro. Senza troppo pessimismo, oggi abbiamo però degli elementi grazie ai quali archiviare questo pezzo di storia artistica. Vuoi sapere gli approdi positivi? Sono i giovani teatranti, uomini donne (e soprattutto donne). Hanno un merito che in passato non si aveva il coraggio di avere: è la voglia di fare. Scalpitano dal voler fare. Basta vederli, sono ‘multifunzionali’: si scrivono da soli i testi, da soli fanno la regia, spesso sono anche attori, scenografi arrangiati. Tutto ciò è un dato molto positivo, è l’uscire da una gerarchia fatta da committente, regista, produttore, testo, e via dicendo. Tutto questo ha un po’ fatto il suo tempo, ormai. Speriamo bene, e speriamo sui giovani.”
Bisognerà ancora una volta fare i conti con i tagli allo spettacolo però. Quella della poca incentivazione al teatro ormai è un habituè delle nostre politiche. Pensa che questo possa rischiare di infangare la voglia di fare, costretta ai conti con “forze maggiori”?
“Ti dico subito che io dirigo un “Teatro stabile”, quello di Roma. Il Teatro è finanziato, lo è.”
Quello di Roma… ma il piccolo teatro di provincia?
“Vedi, vuoi sapere quello che penso? Sono convinto che in qualunque caso il finanziamento dei teatri non sia una cosa molto positiva. Io detasserei il teatro, defiscalizzerei il teatro, toglierei ad esso ogni finanziamento, fino ad estirparlo totalmente dalla contaminazione del denaro. Non è una considerazione azzardata: sono cosciente del rischio catastrofico, però penso che facendo ciò si riuscirebbe a capire cos’è il vero teatro, dove va veramente a tenere il pubblico. Il dato positivo di oggi è che la gente và a teatro. L’anno scorso il teatro ha registrato 12 milioni di spettatori (pur non indagando su cosa di buono siano andati a vedere), che è la stessa identica cifra del cinema: non poco quindi no? Penso che la sicurezza dei finanziamenti abbassi il livello dell’invenzione, dell’inventiva, della creatività, portando quindi ad un teatro che conosce già se stesso, programmato, e ciò è molto negativo secondo me. E’ l’eterno ritorno del modello “PIèCE BIENFAIT”, perfettamente programmata per uno scopo. E questo credo sia la morte e la sconfitta dell’arte. Io di fronte al troppo ‘ben fatto’ mi annoio moltissimo.”
Lei ha fatto molti lavori, dal cinema al piccolo schermo al teatro, dove comunque resta più fedele. Ha un lavoro al quale è più affezionato, uno che maggiormente nella sua carriera l’ha gratificata?
“E’ difficili dirlo. Ci sono sicuramente dei testi, dei lavori con i quali chiudi i conti una volta che li hai fatti. A volte con qualcuno li chiudi in una sera, a volte in un mese, magari in un anno e così via, come se li amassi per quello che ti offrono e per quanto tempo riescono ad offrirtelo. Certamente con un’opera come ‘Amleto’ i conti non li chiudi mai. Penso sia sicuramente uno dei testi più aperti, più imprecisi, tra i più pieni di imperfezioni che esistano e perciò tra i più totalmente geniali. Ma forse quello che più mi resta caro è ‘Le memorie di Adriano’. Lo faccio da 15 anni e sicuramente è il testo col quale potrei continuare a giocare per un’altra vita intera. Ciò lo rende sicuramente il migliore, il più gratificante (basti pensare che dovunque è andato in scena, dalla Spagna alla Cecoslovacchia, dalla Grecia alla Turchia, dovunque, la gente ha riempito il teatro). E’ un miracolo che accade.”
Sfogliando una sua biografia ho letto come lei si definisca un attore dalla “coscienza infelice”, “chiuso in una trappola dalla quale si sforza di uscire”.
“Io ho scritto 14 testi di teatro, ho scritto due opere (come la recente ‘Shakespeare in Jazz’ sulle musiche di Duke Ellington), materiale inedito e chissà quanto altro; ho scritto molto e continuerò a farlo. Questo mi costringe sempre ad ammettere, ad ammettermi nonostante il ‘patentino’ di attore, come la mia vera vocazione sia scrivere. Il problema è che però non riesco mai a scrivere quanto vorrei, proprio per via di quel ‘patentino’. Insomma recito troppo e scrivo poco, e questo mi porta ad avere una coscienze infelice, come se sempre mi mancasse qualcosa. In realtà il più delle volte finisco col fare un po’ tutto, dormendo poco e facendo settanta cose contemporaneamente.”
Poi un saluto e l’attore in scena verso Damasco.