Alessandro Grazian “Indossai”
Etichetta: Trovarobato Brani: Indossai / Ballata / E’ vero / Acqua / Diteci che siamo sani / A San Pietroburgo / Sainte Epine / Fiaba rossa / Soffio di nero / Chiasso / Tema di Sueña Produttore: Alessandro Grazian
Significativo che Grazian dia al disco un titolo al passato remoto: è a ritroso nel tempo che il trentunenne padovano va a cercare i propri modelli, dai cantautori migliori di qualche generazione fa (Endrigo, Bindi) ai grandi compositori per il cinema (Rota, Morricone, fino a Bacalov), non mosso in quest’operazione da un piglio passatista ma solo dalla necessità di avere chiari i propri canoni estetici e su di essi costruire un percorso artistico che ora si arricchisce di interesse. Se infatti il debutto aveva mostrato solo in parte il talento di Grazian, “Indossai” eccede i limiti dell’ordinarietà cantautorale e si propone come opera musicale nell’accezione più ampia del termine. La prima cosa che stupisce è la cura dei dettagli. Tutto è incastrato alla perfezione dentro il congegno artigianale che è l’anima di ogni canzone. Tanti sono gli strumenti chiamati a colorare d’antico lo scheletro del disco che, non a caso, ha avuto una gestazione difficile: ognuno di essi, dall’arpa alla fisarmonica, sembrano necessari alle ragioni estetiche della ricerca di Grazian. Per non parlare del theremin di Vincenzo Vasi che rende incantata la coda strumentale di Acqua o del lavoro insostituibile di Enrico Gabrielli che, come suo solito, suona qualsiasi strumento a tasti o a fiato gli capiti tra le mani. La seconda cosa che stupisce è proprio la quantità e la qualità degli ospiti coinvolti. Oltre ai nomi già citati, in Diteci che siamo sani canta Romina Salvadori, in Fiaba Rossa Janina Mic, mentre in A San Pietroburgo Mimì Clementi declama un frammento di Puškin. C’è almeno un altro punto in favore di “Indossai”: i testi inefferrabili e puntellati di tocchi leggeri e lirici. In essi la poetica dell’amore perduto («un dolore spremuto da me/è quel seme che porto da te»; «ero il dorso dei miei sogni chiusi e timidi/tra le braccia nude di un addio/ero contro la mia gioventù») va di pari passo con un fascinoso ermetismo tipico del primo De Gregori («avevo il mio nome illuminato/da un raggio di sole usato/e non parlavo mai della corda/in quelle case sedotte dal cappio»). Se un punto debole va trovato, forse va ricercato nel fatto che, anche dopo ripetuti ascolti, non arrivi il brano che stende e che si lascia ricordare. Pure, non è detto che sia un difetto. “Indossai” funziona proprio a partire dal suo essere un’opera unitaria, sottesa da un lavoro minuzioso e dal sapore antico. Di certo dopo un disco del genere bisognerebbe abbandonare il termine cantautore e definire Alessandro Grazian semplicemente musicista.
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