La Palestina di Enrico/9
Una donna sta per dare alla luce un figlio, ma il papà deve restare al di qua del Muro
Tre erano i nomi in ballo per questo bimbo tanto atteso, il primo, un maschietto. Ahmad e Sabrin bisticciano e chiedono agli amici quale dei tre preferiscono. La futura mamma si muove con eleganza, senza particolare affanno, quasi non avvertisse il carico del ventre.
Una settimana fa Sabrin, ormai in cinta da nove mesi, è stata portata in ospedale a Gerusalemme, aldilà del Muro dell’apartheid: sembrava il tempo del parto fosse arrivato. Falso allarme, si torna a casa, a Beit Sahour, nei Territori palestinesi occupati. Sabrin è fortunata, possiede la Carta di identità blu che le consente di entrare a Gerusalemme, città occupata nel 1967 e unilateralmente annessa da Israele nel 1980 malgrado le risoluzioni delle Nazioni Unite dichiarassero la Città dei tre monoteismi da porre sotto amministrazione internazionale. Ora la città è separata dal resto della Cisgiordania dal Muro, da decine di checkpoint e da una cintura di colonie israeliane che spezzano i legami storici, culturali, religiosi ed economici che legavano la terza città santa dell’Islam al resto dei Territori palestinesi. Attualmente i 250.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme sono chiamati “residenti permanenti” di Israele (hanno rifiutato la cittadinanza israeliana per non riconoscere l’occupazione della città) e posseggono la Carta di identità di Gerusalemme, appunto di colore blu. Questo significa che possono circolare liberamente in Israele, votare per le elezioni municipali, usufruire dei diritti sociali ed economici garantiti ai normali cittadini, ma non possono votare per le elezioni politiche nazionali né possono ottenere un passaporto israeliano.
Sabrin quindi è fortunata: può andare a Gerusalemme, avere un lavoro decente, accedere ai servizi migliori, gironzolare tra i colori vivaci e i profumi intensi dei mercati della Città Vecchia, incantarsi come fosse la prima volta dinanzi allo splendore della Cupola d’Oro, sulla Spianata delle Moschee. La carta di identità di Ahmad, mio caro amico e collega all’Alternative Information Center, è invece di colore verde, come per la stragrande maggioranza dei palestinesi della Cisgiordania: ciò significa che non può entrare a Gerusalemme senza un permesso speciale rilasciato dalle autorità israeliane. Praticamente impossibile da ottenere. Qualche giorno fa, quando Sabrin ha avvertito di nuovo le contrazioni, subito è tornata nell’ospedale della Città Santa, migliore di Betlemme. Ahmad non ha potuto accompagnarla ed è rimasto a casa, in trepidazione. Tra marito e moglie un Muro di cemento armato alto otto metri. Dorme sul divano perché il letto matrimoniale mezzo vuoto gli ricorda l’assenza, lo inchioda alla realtà di palestinese senza libertà di movimento, a cui viene negato persino il diritto di tener per mano sua moglie mentre dà alla luce il primo maschietto.
Ieri sera siamo andati a tenergli compagnia: un piatto di pasta, un bicchier di vino, chiacchiere tra amici. L’alcool entra in circolo e scioglie i ricordi: Ahmad ci racconta del suo ultimo periodo in prigione, dalla primavera del 2005 a quella del 2007. Non ha senso chiedergli il perché dell’arresto, il 40% dei palestinesi maschi è stato almeno una volta in prigione. Finisci in prigione perché sei palestinese quindi per definizione colpevole e pericoloso. Ahmad è finito sotto “detenzione amministrativa”, autorizzata da ordinanza amministrativa piuttosto che da decreto giudiziario e rinnovabile ogni 6 mesi a discrezione dell’autorità. Non sai di cosa sei accusato, quanto tempo marcirai in prigione.
Due anni sono lunghi, il tempo non sembra passare mai, devi riempirlo per non impazzire: così Ahmad ha cominciato ad incidere disegni sulle pietre. Ci mostra orgoglioso la sua arte. Mi soffermo sul ritratto di Ghassan Kanafani, intellettuale palestinese portavoce del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, assassinato insieme alla sua nipotina nel 1971 dai servizi segreti israeliani. La sua penna andava fermata perché valeva più di cento fucili, dice Ahmad.
È teso, abbattuto, trasandato, non dorme da quando ha dovuto lasciare la moglie. Ogni mezz’ora il telefono squilla…tra due ore dovrebbe partorire…forse domattina…è già in ritardo di 12 giorni. Decidiamo di rimanere a dormire a casa sua, a volte un uomo solo ha bisogno di sentire presenze di corpi accanto. Oggi sarà il quarto giorno di dolce e disperata attesa per Sabrin e Ahmad, lei al di là e lui al di qua di quel maledetto Muro della vergogna.
Ore 14, squilla il telefono di Ahmad: Kinan è nato, 4 chili di felicità. Ancora qualche giorno poi la mamma, insieme al piccolo, potranno finalmente riabbracciare Abu (padre) Ahmad.
Enrico Bartolomei
Nella gallery fotografica: la famiglia finalmente riunita, il Muro e alcune pietre disegnate da Ahmad durante la detenzione nelle carceri israeliane
Pubblicato il 27/3/2009 alle ore 09:39
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