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In questo mondo libero

“In questo mondo libero” - ( It's a Free World) di Ken Loach

di Chiara Poletti

Ken Loach ha perso di vista la sensibilità sociale del bellissimo Il Vento che Accarezzava l’erba, lasciando al tema della povertà collettiva, ogni ragion d’essere del film. In questo mondo libero, non dice nulla di nuovo, e racconta con grande semplicità la storia della disoccupazione degli immigrati in un sobborgo di Londra, visti dalla parte del carnefice; ma qui manca la bellezza non solo di Buckingham Palace, ma anche delle storie. C’è una dark woman trentenne, ragazza madre (Angie) interpretata da Kierston Wareing, (aspetto volgare e volto rifatto) che vuole salvare il mondo e invece non salva nemmeno il suo. Dovrebbe essere una spiegazione lucida e documentata di cosa l’occidente ha creato, ovvero, un mondo senza diritti e doveri per tutti quei  polacchi, rumeni, arabi, che hanno il coraggio di fare la traversata verso l’Europa civilizzata alla ricerca di un lavoro impossibile. Dietro la macchina da presa, è invece tutto più intimista di quello che ci si aspetta. Il tema dall’inizio, è troppo grande per implodere e basta. L’affare è grande e va detto: la grinta e la forza dei lavoratori immigrati forse deriva proprio da quella linfa chiamata famiglia, un espediente che l’occidente sta perdendo. E questa non è sopravvivenza ma la vita di tutti. Tuttavia, è Angie, la protagonista e la storia si dipana in altre strade. Dopo essere stata licenziata lei stessa da un “pesce più grosso”, perché rifiutava di sottomettersi ai suoi apprezzamenti sessuali, decide di aprire un’agenzia interinale con la sua compagna di appartamento.  Si  mette in proprio, perché vuole dare una speranza agli immigrati, ma affonda, e non si redime. O meglio non può redimersi, perché il lavoro nero è ovunque, avvantaggia sempre i potenti,  i controlli dell’ufficio immigrazione non bastano, lo Stato non c’è, e i permessi di soggiorno non esistono. Basta un passaporto falso o vero, e il lavoro, almeno giornaliero, si trova. Si campa e si aspetta il domani. Poi si ricomincia alla ricerca di altre 8 ore in fabbrica. E Angie sfrutta tutto questo. Cede nonostante la coscienza dell’amica. Sfrutta gli operai, e non viene punita. Un film che non ha morale, perché mostra le difficoltà di chi sfrutta qualcun altro. E la storia di Angie non è troppo dissimile, dalla vergogna e dall’umiliazione degli operai. Un disagio interiore che si nota bene nell’incontro padre-figlia. Un padre onesto, ben vestito, della media borghesia, che resta incredulo e attonito quando scopre il lavoro sporco della figlia. Una speranza arriva alla fine, dagli operai. Dopo crisi finanziarie enormi, una polacca sorride ad Angie, la guarda piena di speranze, “sì mi posso fidare di te, mi aiuterai, ne sono certa” sembra dire. In fondo, la ruota gira, e la speranza è l’unica arma con cui illudersi. Se scuotesse le menti Michael Moore, anche Loach dalla sua, avrebbe una speranza, almeno politicamente, un po’ meno artisticamente. Chissà.


 Redazione 

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