Ero, e sono, fermamente convinto che Morfeo mi abbia scelto come figliol prodigo. La mia cronica difficoltà mattutina ad abbandonare la branda è stata però recentemente alterata dalla necessità di far fronte agli obblighi universitari. In una delle tante uggiose mattine novembrine mi trovavo in un’aula, un po’ triste e soffocante, a discutere con il prof di argomentazioni sociologiche. E di quella lezione mi rimase addosso come un capo aderente la dimostrazione di una teoria che mi lasciò completamente estasiato. E che oggi mi ritorna alla memoria dopo aver vissuto l’ennesimo intoppo all’italiana.
Si discuteva della così detta profezia che si auto avvera. Ovvero, per dirla con le parole del sociologo americano Robert Merton, una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità. Come dire che, se sei convinto che uscendo di casa per andare a lavoro troverai tutti semafori rossi, stai sicuro che troverai tutti semafori rossi. Viceversa se credi che quel giorno sia iniziato sotto una buona stella allora non potrà che essere una giornata con i fiocchi. Mi ero molto affezionato a questa teoria. Mi era entrata dentro con sgusciante semplicità come coltello nel burro. Non saprei nemmeno spiegare il motivo. Forse perché gettava un’ulteriore ondata di ottimismo nel grigiore di quelle giornate. Forse perché già la sentivo mia. Qualche giorno fa mi è ritornata prepotentemente alla memoria.
L’occasione viene dal tragitto che percorro per raggiungere una mia ex collega, distante una ventina di minuti di bus dalla mia abitazione. E dire che la giornata è iniziata bene. Caffè e cappuccino. Un languido sole che a fatica fuoriesce tra le pesanti nuvole ma tanto basta a rendere la giornata più colorata. La notizia dell’imminente arrivo del vaglia postale gentilmente offertomi dalla ditta mami&papi come premio post esame. L’imminente arrivo nella squadra del cuore (l’Avellino) di un attaccante di spessore. Insomma i presupposti per iniziare bene la giornata ci sono tutti. E ripensando alla suddetta teoria non posso, di conseguenza, che rallegrarmi. Se è iniziata bene la giornata non può che finire meglio. Con questo spirito mi accingo ad andare all’appuntamento. Ma come spesso accade le convinzioni e le aspettative sono fatte per essere deluse.
Salgo sull’autobus diretto verso la meta. Nei primi dieci minuti tutto scorre tranquillo. Solitamente mi piace con discrezione osservare la gente presente, scambiare quattro chiacchiere con i viaggiatori, vivere il viaggio seppure breve. Non sempre accade. Per questo il fido compagno e cugino prossimo del walkman, l’I-Pod, mi aiuta in questi momenti di mancanza. E questo è il caso. Ma come sempre è la fine la più importante. Mancano poche fermate al capolinea quando per cause ancora da accertare il bus si inchioda nel traffico. Beh, cose che capitano, pensavo tra me e me. Tempo due minuti e si ripartirà. Non l’avessi mai detto. Ventidue minuti contati di perfetta stabilità sul suolo cittadino. Nessun movimento. Se non quello degli omini frettolosi in cerca della vetrina più accattivante che si intravedevano da offuscati doppi vetri. La gente inizia ad infastidirsi. Prima una, poi due. Poi tre. Poi quattro. Fino a che un gruppo cospicuo di persone inizia con insistenza a chiedere all’autista l’apertura delle porte. Ma lo stakanovista dipendente dell’ATAF si attiene meticolosamente al regolamento e non permette a nessuno di varcare la linea rossa. Perché la responsabilità di eventuali terzi sarà solo la sua. “E poi che gli dico all’azienda?” la domanda sarcastica dell’autista. Un crogiuolo di risposte forsennate che si sovrappongono e che vanno dal sarcasmo all’incazzatura più pura. “Che dovevo andare a lavoro” gli fa eco una giovane dell’est piuttosto incavolata.Un siparietto comico. Dieci minuti in cui non sapevo se ridere o piangere. Un teatrino. Bazzecole, quisquilie, pinzellacchere. Per la gioia dei viaggiatori più anziani che non hanno da rincorrere nulla. E la buttano saggiamente sul ridere. Ed è proprio a questo punto che mi ritornano le parole del simpatico prof. Ma come è possibile? Forse si sbagliava. Perché la giornata era partita con tutti i crismi della serenità. Eppure qualcosa si era inceppato. Poi ci ripenso. No, è stata solo un eccezione. Siamo in Italia. Dove anche l’assurdo diviene possibile e fattibile. Dove anche un breve spostamento può trasformarsi in qualcosa di tragicomico. Dove la semplicità si trasforma in assurda ed incomprensibile complessità. Dove un tombino intasato può bloccare un’intera città. Dove la gente va sempre di fretta e ha sempre ragione. Dove chi fa il suo lavoro non vorrebbe più fare il suo lavoro. Perché ciascuno ha la propria da dire. E a nessuno sta bene. Comunque vada. E’ lo stress figlio di un individualismo esasperato. E’ l’incapacità di pensare. Risolvere ed agire. Forse avrei fattomeglio a prendere la bici. Ne avrei guadagnato in tempo e salute. Ma forse non mi sarei mai reso conto che l’eccezione conferma la regola. Che la profezia sia auto avvera, sempre comunque. Basta pensarci e volerlo. E se tre indizi fanno una prova, e siamo già al secondo episodio (il primo caso: la Freccia Rossa targata Trenitalia), speriamo non si arrivi al terzo. Andrebbero perse tutte le convinzioni fin qui raccontate.