Nulla sopra la città: ode a Charles Bukowski
di Pierluigi Lucadei
Poi succede che mi riaccompagni a casa come se niente fosse importante a parte quell’ectoplasma che ci avviluppa, la merda che ristagna nell’aria sin dal giorno in cui siamo nati e morti e stanchi e abbracciati così al cattivo gusto. Dietro l’angolo si ammazzano per niente. Una sanguinosa battaglia nel nulla, dove nulla prende il posto di nulla, ricoprendo di stanchezza anche i fiori appena germogliati, in un nulla più grande che non conosce il peso della polvere sugli oggetti. Adesso, vecchio straccio, scivola via. Come una calza forata da una tristezza senza fine.
Ci sono rimasugli di bellezza sul piatto del vagabondo. Senza alcun desiderio di possedere. Con la pretesa, anzi, di ritrovarsi senza niente in mano. A guardare un tramonto vigliacco da una collina senza un centesimo bucato da tirargli contro, senza una goccia di saliva da sputargli addosso, senza neanche un insulto muto da dedicargli in silenzio. Poi arriva la poesia, ma prima che stritoli le nostre ghiandole occorre spazzolare parecchio, togliere la vergogna la sporcizia l’unto. Teniamoci la nostra volontà rattrappita e sbarazziamoci di quell’inerme forma di esibizionismo che permetterebbe di mostrare soltanto la metà di noi o forse meno. Da quanto mi ricordo, sei stato tu ad insegnarmi il supplizio dei dannati e degli inutili.
Ci sono stati molti eserciti schierati contro la nullità, ma mostramene uno che abbia avuto la meglio. E forse ci sono stati mille modi migliori di questo per parlare di poesia, ma il mio fiore pretende di crescere all’ombra, in mezzo all’asfalto, senza bere e senza troppa voglia di sollevarsi eretto a cogliere i raggi migliori, con la predisposizione insana ad adagiarsi di schiena sull’erba mattutina e restarsene così tutto il giorno, fino al buio di nuovo e di nuovo.
Sai anche tu che la durata è un limite, il buon senso non sa scendere le scale e anche la fermezza ha i suoi tremori. Perciò che senso ha cantare, se più vicino c’è solo una vertigine che a furia di chiedere ricompense s’è fatta stagionata, come una giostra rotta, tutto gira ma non c’è musica in sottofondo.
Non autoinfliggerti la sconfitta. Sparisci da qui.
Con una rotula spaccata, con la pelle scorticata, le labbra livide, il naso sanguinante e una poesia in mano, un dispetto eterno forgiato da una mano viva. Quei pochi versi che mi farebbero inorridire se non avessi visto un ghigno fratello sotto la tazzina del caffè. Buio pesto. Notte di immagini vuote. Nulla sopra la città. Basta la mia vista a fronteggiare la luna. Almeno che lei non compaia e prenda a illuminare tutto con la sua voglia di azzurro. Nel mezzo mi offri un verso e un bicchiere. E mi capisci se rifiuto la tua compagnia.
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