I funerali di Bulow e la sinistra di un giorno infinito
di Chiara Poletti Migliaia di persone in piazza per dare l’ultimo saluto ad Arrigo Boldrini, partigiano e parlamentare della Costituente, medaglia d’oro al valor miliare. Colui che nel giorno in cui si decide di celebrare i 60 anni della Costituzione ci lascia, lascia la sua Romagna, la sua Ravenna, e da laico e comunista si vede sventolare le bandiere vergini e nuove di zecca del Pd. Lì in quella piazza del Popolo dove si accalcano almeno 2mila persone, per la cerimonia funebre, il sole è alto nel cielo. Dal giorno della sua morte, martedì scorso, il sereno è tornato sulla pianura padana, è si è fermato quei tre giorni, tanto basta per dargli l’ultimo bacio simbolico, intonando Bella Ciao a pugno chiuso, a bassa voce, mentre il governo perde la fiducia al Senato. Proprio oggi, 24 gennaio si respira un’aria strana a Ravenna. Arriva il vice premier Massimo D’Alema in cappotto grigio scuro accompagnato dal defilato Piero Fassino in loden verde militare. E’ magro, smunto, bianco e mentre si allontana dalla folla, si ferma a parlare con una signora anziana e bassa, dai capelli bianchi latte, che lo guarda dal basso in segno di riverenza e di appello alla speranza. Che invece, poche ore dopo si esaurirà in un battito d’ali. Ravenna e i suoi rossi spiriti sull’antica valle del Po, languono di fronte ai fatti: il governo è caduto. Prodi non c’è l’ha fatta. E sono stati forse proprio i ravennati, i testimoni delle ultime ore di un D’Alema Ministro degli esteri. Colpiscono tante cose in piazza, la gente anziana, le bandiere vergini nuove di zecca del Pd montate su canne di bambù che non ricordano niente di storico a quei tanti ex partigiani presenti in piazza, e i 5 sensi frammisti ai colori delle forze dell’ordine: i colori rosso e blu dei pennacchi dell’Arma dei Carabinieri, il luccichio contro luce, delle file di medaglie d’oro sui gonfaloni dell’Anpi di Ravenna, di Rodi Egeo, della regione Emilia Romagna; il profumo di fiori freschi, di gigli bianchi, rose rosse, crisantemi gialli e poi la bandiera tricolore, a mezz’asta sul balcone di Palazzo Merlato in segno di lutto assieme al Leone rosso e giallo di Ravenna, quella che copre il feretro di Bulow, e quella che attraversa il petto dei vari sindaci che non vogliono mancare, Cofferati da Bologna, ma pure Laura Rossi da Bagnacavallo. E in prima fila, il metro e novanta del Sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci accanto all’altro ravennate doc, il Presidente della Regione Vasco Errani. Tra la folla di giornalisti che stanno dentro le transenne con le telecamere, c’è Canzio, vecchissimo amico dei Ds, e autista di tanti viaggi che accompagnarono D’Alema alla Festa de l’Unità. “Questa volta, non li ho portati qui io, -dice- perché ora sono loro al Governo, ho accompagnato solo i rappresentanti dell’Anpi mentre i capi hanno l’aereo di Stato, che arriva da Forlì”. Ancora, per l’ultima volta. E’ il giorno 24 gennaio che San Pietroburgo, viene ribattezzata Leningrado nel 1924 ed è sempre il 24 gennaio che Carlo VII Alberto diventa Imperatore del Sacro Romano nel 1742. Ed è il 24 gennaio che la Camera celebra il 60esimo anniversario della Costituzione. Ma Bulow, che di anni ne aveva 92, da parecchi tempo, dice una sua infermiera che lo accudiva nella casa di riposo di Marina Romea, non era più lui, aveva perso la memoria ma conservando sempre quella sua “aria austera e di poche parole, anche se vinceva a carte”. Lo ricorda Gordini, quell’ex partigiano, fratello del Mario Gordini a cui è intitolata una strada del centro storico a Ravenna, che cadde nel 44, combattendo nella "28ª Brigata Garibaldi", comandata da Arrigo Boldrini e intitolata in suo onore. Perché lui, Mario Gordini nato nel 1911 a Ravenna, è morto a 33 anni, soli. Davanti al plotone d'esecuzione al momento del "fuoco" gridò: "Viva la libertà!". Abbattuto dalla scarica cadde, ma prima del colpo di grazia, ebbe ancora la forza di lanciargli un sasso contro intriso del suo stesso sangue. Ora tante testimonianze, intrise di ricordi, si leggono nelle oltre 2mila firme apposte sul libro blu nella camera ardente in Municipio. Colpisce quello di Renato Antolino “Il musicista che ti suonava Bella Ciao”, o anche “Con te nella linea gotica. Ciao”, “Per poter essere qui ancora, grazie!” e soprattutto il racconto di Monica Ottaviani. Semplice, toccante e familiare. “Parlerò di te ai miei figli raccontando loro del tuo impegno per la costruzione della democrazia nel nostro paese. Gli racconterò anche delle matrioske, che mi portasti da un viaggio in Russia, e dell’uovo di Pasqua regalatomi quando ancora ero piccola. Ciao Comandante. Ciao grande nonno!”. Fa freddo e fuori dal Municipio la gente riprende in mano il cappello, e lo indossa. Tanti baschi militari e semplici berrette marroni. Al collo, la sciarpa della Croce Rossa, dell’Anpi, mentre una signora robusta, non teme il freddo e mostra agli amici, quel leggerissimo foulard rosso al collo, con la figura di Garibaldi. C’è anche una vecchissima bandiera Pci del 1921 sforacchiata, e un’altra, sul cui spuntone c’è la falce e il martello in ottone sbiadito. E poi gli squilli d’attenzione, che precedono l’inno nazionale. Ma c’è il silenzio regolamentare quello in onore dei caduti, non d’ordinanza, che ancora, è lo stesso in tutto il mondo. Il feretro viene caricato sul carro funebre che lo aspetta in Via IV Novembre, e sul lato opposto, la coda si accalca dietro D’Alema e Fassino, che svoltato l’angolo di Via Mariani, svaniscono sulle auto blindate. Non andranno al cimitero, ma dritti a Ciampino, per le brutte notizie, della sera. Sono le 17 passate, e la cerimonia si è conclusa con discorsi che volano alto, al senso nazionale della libertà. Se Bulow fu protagonista indiscusso della storia d’Italia, della Costituzione italiana, e Presidente nazionale dell’Anpi, La “Storia d’Italia” di Montanelli e l’Enciclopedia Universale del Sole 24 ore, accenna appena due righe a Boldrini, e nessuna inchiesta Rai ne ha parlato abbastanza. Forse il revisionismo storico è affidato ai posteri di Pansa, dell’era Wikipedia. O forse no. Di certo, c’è un particolare non trascurabile. Giuseppe D'Alema, padre del Ministro Massimo nacque a Ravenna, il 15 maggio del 1917 e lì in quel capanno massonico sconosciuto ai più, a Porto Fuori di Ravenna, si conserva un pezzo della storia privata e poi pubblica che è passata sotto il ponte rosso del ventesimo secolo.
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