IL PERU' DI SERENA
L'esperienza volge al termine: si cominciano a fare le valigie e già affiora la nostalgia/37
20/9/2007 - Fino a pochi giorni fa non mi rendevo conto che si stava avvicinando il momento di partire e di lasciare “il mio Perù”. Domenica scorsa pensavo di fare la valigia, pensavo fosse facile. Che strano! Era come se ogni cosa che vi ponevo dentro fosse un taglio di forbice che spezzava poco a poco il cordone ombelicale che si è creato con Lima, con le persone ed i luoghi conosciuti. Tutto sembrava più lontano. Volevo poter mettere ogni dettaglio della mia esperienza nella valigia, però non entrava, dovevo fare una selezione ma non volevo. In quell’istante ho capito che stavo per partire. Ho organizzato già alcune feste di addio con colleghi ed amici, però alla fine terminavo sempre dicendo:”…No, però la settimana prossima passo in ufficio…non preoccupatevi che ci vediamo un’altra volta prima che parta…”. Era come se non volessi chiudere definitivamente.
Ora sono nella mia stanza, sto ascoltando alcune canzoni che sono state la colonna sonora di questi mesi: le parole di Mercedes Sosa, Silvio Rodríguez, Piero e Pablo Milanes mi aiutano a ripercorrere alcuni momenti di quest’esperienza. Nei loro testi parlano molto di America Latina, dei suoi problemi, delle lotte sociali delle differenti popolazioni che ne fanno parte, dell’unicorno perso, del tempo che passa e, naturalmente, parlano anche dell’amore, tema immancabile in questa parte del mondo. È curioso vedere che, in una regione come questa, in cui guerre civili, dittature e massacri siano stati protagonisti per interi decenni, le canzoni romantiche spopolino nelle radio nazionali, nelle “combi” frenetiche, tra le pareti degli uffici delle colleghe.
Ascolto, mi fermo per un attimo, chiudo gli occhi e mi metto a pensare a cosa realmente vorrei mettere nella valigia e nel nuovo borsone di tela incaica appena comprato. La prima immagine è quella degli amici e delle persone speciali che ho conosciuto. Agli occhi lucidi delle “despeditas” (feste di addio) preferisco portare la spensieratezza dell’ultimo viaggio ad Ayacucho, le risate e l’atmosfera che si respirava nelle feste di alcuni amici animate dalle note di “Flor di Retama” (canzone simbolo della violenza politica nelle province ayacuchane). I colleghi di lavoro li porterei tutti in volo con me, ognuno con la sua particolarità, ognuno con qualcosa di speciale da cui imparare, soprattutto i membri del SUTA, un sindacato nuovo nato all’intero dell’istituzione, basato più sulle battute e lo stare insieme che sulle rivendicazioni lavorative. Altra immagine forte è quella dei familiari: vorrei poter riuscire a impacchettare e trasportare in aereo la loro forza d’animo, il loro coraggio, la loro sofferenza, elementi che sempre mi porterò dentro, così come i loro volti e le loro storie difficili da accettare.
Mi porterei una “combi” in miniatura come ricordo. Il traffico ed i sorpassi azzardati, i sobbalzi ed i clacson stonati, quelli no, li lascerei tranquillamente nella capitale peruviana così come lascerei il suo grigio, il suo 98% di umidità ed il constante e paranoico senso di insicurezza che si respira in essa.
Però porterei i suoi mercati, con la sua gente, i polli appesi, gli odori, i colori ed i rumori, la varietà dei prodotti che possono essere venduti e comprati, l’assenza delle bustine e borsette di plastiche che invece sommergono il mondo occidentale, gli oggetti sfusi: medicine, caramelle e sigarette, tutto può essere venduto “por unidad”.
Di Lima metterei in valigia il Cinematografo e il malecón di Barranco, la avenida Quilca di giorno (di notte fa un po’ paura) piena zeppa di libri e di murales, Piazza San Martín e Piazza de Armas di notte, la loro illuminazione mi affascina. Porterei la sabbia di Villa el salvador ed un pezzetto di mare della Herradura.
Riempirei gli ultimi spazi a disposizione con la sierra ed i suoi dettagli: le donne con gonne, scialli, ojotas (sandali particolari), trecce e cappello, i bimbi avvolti nelle mante colorate, i monti con le varie tonalità di verde e giallo, i paesini sperduti, la genuinità della popolazione contadina, le credenze e il quechua, un peccato non averlo imparato. Vorrei portare ancora più cose, un bagaglio a mano di solo cibo: stavo progettando di esportare camote, canchita serrana, ají e tutto il necessario (che in Italia non esiste) per poter cucinare i piatti tipici delle varie zone del Paese.
Apro gli occhi, la valigia è ora davanti ai miei occhi, maglioni e regalini restano fuori ancora per un po’.
Serena D’Angelo
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