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“Le labbra” (La Pioggia/Venus, 2008)

Paolo Benvegnù “Le labbra”

Etichetta: La Pioggia Dischi / Venus
Brani: La schiena / Amore santo e blasfemo / La peste / Il nemico / La distanza / Interno notte / L’ultimo assalto / Jeremy / Sintesi di un modello matematico / Cinque secondi / 1784
Produttori: Guglielmo Ridolfo Gagliano e Andrea Franchi


L’ha fatto di nuovo. Ha aspettato quattro anni per dare un seguito al capolavoro “Piccoli fragilissimi film” e finalmente ce ne ha consegnato un altro. Il nuovo capolavoro si chiama “Le labbra” ed è così denso che già dopo i primi ascolti capisci che non te lo spiccicherai più di dosso. Undici canzoni che pesano come materia grave e bordeaux. Come il sangue che inizia a coagulare. Paolo non sa fingere e continua a cantare con la voce rotta dall’affanno, come se il cuore gli potesse scoppiare da un momento all’altro. Toglie la pelle alle sue emozioni, ne fa versi carichi di slanci e di inviti alla vita, contemplando anche la sconfitta e la perdita, non la resa.

«potrai dividere il mio corpo in parti uguali/in un istante che purifica/non c’è nessun confine che divida e illumini/la freccia e il suo bersaglio»

Con la sua musica crea un magma infuocato, in ogni momento aderente al reale e negli stessi momenti tendente al simbolico, un ribollire dalla bellezza obliqua, a tratti irresistibile. Tra amori privi di sé («depositare il seme/senza amare il campo/…/depositare il seme/mentre mi sto uccidendo») e amori metafore d’infinito («e la radio canta di una stella che sembrava irraggiungibile/come se il riflesso di uno specchio fosse il dato più attendibile»), il fluire di emozioni nelle loro diverse gradazioni non conosce sosta, dall’alfa all’omega Paolo sembra trattenere come spugna ogni frammento del suo vissuto sentimentale, non disperde una sola parola con l’intento omicida di rigettare tutto indietro su chi ha toccato, o soltanto sfiorato. Con una fede commovente nella verità.

Le parole, si diceva. Col loro valore incomprensibile e il loro senso da equivocare, sono il fragile ma necessario segreto da conoscere per vivere e rappresentare – perché da queste parti si rappresenta la vita – tutte le gradazioni dell’amore, che Paolo riesce persino a riassumere in un titolo programmatico, Amore santo e blasfemoil mio amore è santo e blasfemo/perché ha toccato gli angeli/…/ed è crudele come immaginare/come scopare/come illudersi di ritornare/…/il mio amore è santo e blasfemo/perché conosce le parole/è lo sguardo d’abbandono prima di partire»).

Gli arrangiamenti fanno da ideale contrappunto, la batteria di Andrea Franchi de-sincronizza i battiti e l’incedere avvolgente delle chitarre li ricompatta in un unico sentire. Splendida la presenza degli archi e persino dei fiati, che portano taluni episodi in un territorio ricco di fascino in cui la canzone d’autore si imbatte nel free jazz. Momenti di debolezza non ce ne sono. L’intensità non abbassa la sua asticella neanche quando in apparenza tenta di farlo, nella sognante ambientazione di Interno notte o nella melodia pop di 1784, che in realtà non si fa scrupoli a delineare un ritratto di lirismo struggente («lei non ha più bisogno di credere/e accarezza le gambe ai suoi demoni/…/poi diventa luce che non tradisce nessuno/come fuoco che si sa fermare/…/e nei suoi occhi i miei sogni esplodono»).

“Le labbra” è come ogni album dovrebbe essere, spietato e autentico. C’è poi il pezzo d’apertura che rende cenere tutto ciò che la musica italiana ci ha propinato negli ultimi mesi. Pensavamo che con Il mare verticale Paolo avesse toccato un vertice insuperabile e ora siamo smentiti nella maniera più bella possibile, perché La schiena è un sipario che si apre su quello che tutti hanno guardato almeno una volta ma che pochissimi sono riusciti a rendere con un turbamento d’animo così puro. Ci sono un uomo e una donna. Immersi nella verità che non riescono a far propria, nonostante sia proprio lì, intorno a loro. La poesia della cecità di coppia è per Paolo sempre sprono alla simmetria («è così che ogni goccia di me/scava la tua schiena lentamente/con un ritmo costante/è così che ogni goccia di te/scava la mia schiena lentamente/con un ritmo costante») e il non negarsi la verità, almeno nei cinque minuti della canzone, è specchio per la sua integrità e per la sua arte, ancora una volta toccata dalla grazia.

 Pierluigi Lucadei

Recensioni

 Articolo letto 3841 volte. il 16 Mar 2008 alle 19:37
 
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