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"Drums and Guns" (Sub Pop/Audioglobe, 2007) |
Low “Drums and Guns”
Etichetta: Sub Pop Brani: Pretty People / Belarus / Breaker / Dragonfly / Sandinista / Always Fade / Dust on the Window / Hatchet / Your Poison / Take Your Time / In Silence / Murderer / Violent Past Produttore: Dave Fridmann
“Le voci, energetiche e seducenti, sono schiette e limpide. Le ritmiche palpitano, le tessiture evaporano. Agli arrangiamenti è stato sottratto ogni oggetto di valore. Il messaggio è chiaro. Questo è l'album più importante dell'anno”, sono le note stampa scritte da Jonathan Poneman in persona, ovverosia colui che dopo l’abbandono di Bruce Pavitt è rimasto il solo padrone di casa della Sub Pop, ergo uno dei papà del grunge nonché uno dei personaggi musicali più influenti del pianeta. E sì che i Low si sono riaccasati presso l’etichetta di Seattle e le due parti si porteranno reciproca fortuna e da Poneman non ci si poteva aspettare altro che queste note gravide di lodi, ma “Drums and Guns”, ottavo album della formazione di Duluth, rappresenta un oggetto di indiscutibile valore estetico nella sua precisa volontà di non compiacere nessun tipo di aspettativa, di porsi come pietra angolare di certo rock d’impostazione concettuale e nella sua assoluta incapacità di passare inosservato.
Come nel precedente “The Great Destroyer” la produzione porta la firma di Dave Fridmann. E come il precedente, “Drums and Guns” è un disco dentro il quale si rischia di perdersi. Scendere a compromessi con una lentezza esasperata: se non si riesce in questa non ovvia operazione d’animo, non si entra nel cono d’ombra che i Low scavano con la loro musica scarnificata, ridotta a pelle e ossa. Feedback, un basso che manda rintocchi di morte, loop, schegge di suono, fruscii che arrivano da distanze non quantificabili, la voce in primo piano che invece di essere l’elemento più immediato è quello più difficile da afferrare.
E’ un disco spettrale, non a caso ci sono molti morti, omicidi per lo più. Ovviamente non siamo dalle parti del Nick Cave di “Murder Ballads”, non c’è nulla di neanche lontanamente narrativo qui, Alan Sparhawk e Mimi Parker giocano con le impressioni ed è proprio questo che le tredici canzoni sono: quadretti impressionisti, malati e notturni. E’ un disco dove si combatte, dove ci si spara, più per una predisposizione di spirito che per una reale necessità («all I can do is fight/even if I know you’re right/…/all I can do is hide/God bless the darkness of the night» sono i versi della conclusiva Violent Past e il paradigma del senso dell’intero disco). Pretty People, con la sua fantasia di morte, Breaker, con i versi più espliciti («my hand just kills and kills»), Murderer, che viaggia tra i deliri di un assassino, sono brani che definire macabri vale a usare un sottile eufemismo. Non mancano momenti più distesi: Dust on the Window, che richiama alla mente la coppia Angelo Badalamenti-Julee Cruise, la marcetta Sandinista e Hatchet, che canta con ironia di Beatles e Stones, forse l’episodio meno significativo della raccolta. Qua e là (Breaker, Take Your Time) compare una batteria elettronica, che tra gli opposti freddo/caldo vuoto/pieno fa pendere la bilancia verso i primi: non alleggerisce il carico di tensione, tesse una trama grigia fatta di distanza, vuoto, gelo. Album più importante dell’anno probabilmente no, ma album di fascino e influenza assoluti decisamente sì.
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Pierluigi Lucadei
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Recensioni |
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il 16 Feb 2007 alle 00:23 |
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