RIPATRANSONE, 2006-08-07 - Che cos’è una foto se non il tentativo di rubare allo scorrere del tempo, alla corrosione dei secondi che passano, un brandello di immortalità, l’istante tra l’attimo e l’eterno che resta su una pellicola e piano si placa in una prigione d’arte e verità? La foto come verità. La foto come testimonianza, come il disegno degli occhi del tempo ed il loro colore dipinto dalle diverse circostanze che sotto di esso si presentano.
Si è aperta sabato 5 agosto la mostra di Nereo Cardarelli, fotografo ripano che ormai da vent’anni occupa popolarità e riconoscimenti nel campo della fotografia, tra mostre personali e collettive, pubblicazioni su autorevoli riviste nazionali ed internazionali (FOTOPRATICA, L’EUROPEO, GENTE DI FOROGRAFIA ed altre), pubblicazioni varie e collaborazioni in Italia e all’estero (come quella alla “Berlinale”, Festival del Cinema di Berlino).
La mostra, dal titolo “Praga, un’altra primavera”, esposta presso il Palazzo del Podestà di Ripatransone fino al 27 agosto -dalle 17 alle 20-, presenta una carrellata di immagine relative alla rivoluzione di velluto, ovvero al ritiro del governo socialista da Praga, e alla seguente nascita della democrazia nel fervore e nelle ambiguità di una paese in transizione: un treno in bianco e nero che presenta in ogni suo vagone i brandelli significativi, le briciole più importanti del cambiamento, quelle della trasformazione proiettata negli sguardi e nei diversi atteggiamenti di un popolo sotto luce nuova.
L’esposizione infatti, pur se relativa al carattere politico, riesce bene a centrare la nuova atmosfera che nel paese si concretizza anteriormente e posteriormente all’evento del passaggio di potere a Praga: giugno 1989 – giugno 1890, un lasso di tempo dove bene si nota, fin dai più banali ed invisibili aspetti quotidiani, una nazione liberata e finalmente rivolta a nuovi miti nel tentativo, anche, di un modello occidentale.
Da “Piazza San Venceslao” a quella “della Città Vecchia”, luoghi e volti che raccontano pezzi di storie diverse, pezzi di un’unica grande storia che è quella del mondo. Plotoni di soldati, ragazzi con le giubbe di pelle e la rabbia nelle scritte anarchiche, musicisti per le strade che a petto nudo suonano come a spogliarsi di un passato per cantare musica nuova. E poi ancora manifesti, le scritte del cambiamento sui muri di “Via Celetnà” ed i colori che non avrebbe senso raccontare se non sei tu a leggere le sensazioni che solo il senso artistico, in questo caso di una buona foto, può suscitare.
Tutto rigorosamente in bianco e nero: “Quanto alla fotografia, per me è naturale vedere in bianco e nero. Il mondo può essere colore ma il bianco e nero lo trascende. Quando lavoro spengo l’interruttore, e mi trovo in uno stato di grazia. Comincio a vedere in bianco e nero. Qualsiasi tono di colore io lo traduco in toni di grigio, nero e bianco. Ti consente di lavorare in un modo diverso. Quando non devi lavorare con i colori della realtà, lavori davvero con altre cose. (Abbas, fotografo)”.
Una bella mostra che racconta, di chi gira l’angolo e semplicemente si trova tra le mani la possibilità di parlare con uno scatto di storie piccole come una foto e infinite come le sensazioni che questa può causare.