Guerra tra idealismo e realismo: la questione dei contingenti italiani all’estero
Rabbia e dolore, lacrime e disperazione. Ciò che si legge negli occhi e negli animi di tante, ormai troppe persone che hanno visto partire, e non tornare, i propri cari verso una meta che molti chiamano passione, altri amor di patria, altri ancora semplice lavoro, taluni senso di solidarietà. Nella fattispecie è l’occupazione armata di territori stranieri. Un problema che oggi ritorna prepotentemente d’attualità chiedendo altresì l’urgenza di una soluzione. Sì perché trentasei vittime italiane (29 militari e 7 civili) in territorio irakeno sono davvero tante. Così l’Italia si aggiudica un triste primato: terzo paese per numero di vittime tra i paesi della coalizione. E l’ultimo attentato in cui hanno perso la vita a Nassiriya, il 27 Aprile scorso, tre militari del contingente italiano (Nicola Ciardelli, Franco Lattanzio, Carlo De Trizio) non può non scuotere le coscienze. Il destino beffardo ha voluto che ciò avvenisse a pochi giorni dalla notizia, diffusa dal quotidiano arabo al Hayat, di un ritiro progressivo, a breve, delle forze con il tricolore. Ancora una volta cittadini italiani hanno perso la vita per difendere la pace, ancora una volta ci saranno famiglie costrette a vivere nell’angoscia del ricordo. Sono momenti che l’Italia troppo spesso sta vivendo sulla propria pelle. Sono momenti in cui le facili parole ed i lunghi elogi debbono lasciar il posto alla riflessione silenziosa, nel rispetto del dolore altrui, cercando di evitare facili strumentalizzazioni ideologiche. Purtroppo c’è ancora chi, guidato dall’ideale della stupidità, scende in piazza al grido di 10,100,1000 Nassirriya. Per fortuna, nel momento di vuoto istituzionale italiano, nessun esponente politico ha utilizzato l’accaduto per assecondare propri progetti politici o demonizzare quelli avversi. Questo non può che essere il punto di partenza, per il governo che verrà, per una nuova e più vigorosa discussione sulla presenza di contingenti italiani in Iraq. E non solo. E’ giusto ricordare infatti che truppe del nostro esercito sono presenti anche in Albania, Afghanistan, Congo, Sudan e non solo. Complessivamente ci sono circa diecimila militari italiani impegnati in ventinove missioni in venti Paesi. Nella maggior parte dei casi si tratta di operazioni di peacekeeping o di sostegno e salvaguardia delle azioni di tutela umanitaria internazionale. In questo senso la temporanea presenza militare rappresenta per le popolazioni locali motivo di sicurezza, sostegno e solidarietà. Purtroppo però non è sempre ed ovunque così. E il caso Iraq ne è un esempio. Molti sono i dubbi sul perché e i percome e i retroscena che si nascondono dietro questa guerra fortemente voluta dagli Stati Uniti e appoggiata anche dal governo Berlusconi. Un ex funzionario dell’Eni, Benito Li Vigni, in una raccolta dal titolo emblematico “La guerra del petrolio” sostiene che “la presenza militare italiana in Iraq è motivata dal desiderio di non essere assenti dal tavolo della ricostruzione e degli affari… che riguardano soprattutto lo sfruttamento dei campi petroliferi… Non a caso il nostro contingente si è attestato nella zona di Nassiriya, dove agli italiani dell’Eni, il governo irakeno aveva concesso tra il 1995 e il 2000 lo sfruttamento di un giacimento petrolifero, con 2,5-3 miliardi di barili di riserve…”. Come spesso è accaduto nel lento progredire della storia, l’occupazione militare nasconde loschi interessi economici e di potere. E solo ora, che l’Italia sta pagando il suo pesante tributo, ci si rende conto dell’inutilità di questo conflitto. Sarebbe però alquanto insensato propugnare e propagandare, come fatto, una sorta di effetto Zapatero. Il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq ci deve essere e sicuramente ci sarà, ma non può avvenire in tempi immediati o in maniera coatta. Difatti anche il nuovo Presidente del Consiglio ha già espresso dubbi sulla fattibilità di un operazione che certo non potrà attuarsi completamente prima dell’autunno-inverno prossimi. Non si potrebbe altresì analizzare il caso particolare senza tener presente quello che è il quadro generale: in un’ottica più ampia infatti tutto diventa più complesso, perché si va ad invadere un campo impervio e non facile. Quello del rapporto tra morale e politica. Tra realismo ed idealismo. La pace senza dubbio è un bene supremo a cui ogni civiltà dovrebbe aspirare. Un valore universale ed universalmente riconosciuto. Tuttavia la storia del genere umano è anche la storia inesorabile di conflitti, oppressioni, sopraffazioni, guerre dalle cause spesso poco trasparenti ma dagli effetti sempre visibili e ricostruibili. Questo non vuol dire che non bisogna tendere verso un qualcosa, un valore che si ritiene giusto solo per effetto di dottrine deterministiche. Vuol dire però stabilire fino a che punto l’idealismo può arrivare e quando e dove deve lasciar il posto al realismo; dove l’utopia, onde evitare degeneri in dogmatismo, deve cedere il passo al pragmatismo. In questo senso il pacifismo ad oltranza può risultare dannoso o non adeguato, in quanto criterio d’azione non sempre utile a risolvere particolari situazioni di difficoltà e divisione. Taluni hanno sostenuto la necessità di lasciar libertà di azione ad istituzioni sovra-nazionali. Niente di più giusto e sacrosanto. D’altronde è proprio la nostra Costituzione a sancirlo. Come nel caso del conflitto in Afghanistan, per il quale si richiese l’intervento di un organo super partes come le Nazioni Unite. Ma nel corso degli anni questo fantomatico organismo ha più volte manifestato la sua incapacità ad assolvere il ruolo ed i compiti per il quale è stato messo in piedi. Dimostrando così di non essere sempre una valida alternativa o uno strumento in grado di garantire stabilità e sicurezza. Da qui nasce la necessità di valutare singolarmente ogni evento, di calarsi effettivamente nel reale, per dare risposte concrete a problemi concreti. Ciò richiede, talvolta, la necessità di affrontare le questioni scevri da qualsivoglia contaminazione ideologica che può certo risultare fuorviante per il fine a cui si tende. Ed è proprio qui che si pone il problema della scelta tra realismo ed idealismo, del rapporto tra morale e politica. Ed è proprio qui che si gioca il destino di intere popolazioni.
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