Bruce Springsteen: Devils & Dust Tour 2005
Bologna, 4 giugno – München, 13 giugno


Palamalaguti (Bologna), 04.06.05

 

Esiste uno strano rapporto tra il Boss ed i suoi fans. C'è gente che va ai suoi concerti da vent'anni, che lo ha visto dal vivo decine e decine di volte, che lo segue in giro per l'Europa e persino in America.
C'è gente di venti, trenta, quaranta e cinquant'anni in coda per intere nottate per accaparrarsi un biglietto, che colleziona centinaia di bootleg e conosce a memoria ogni sua canzone.
Ma non è una semplice adorazione da fanatici. "Siamo cresciuti insieme" aveva detto Bruce al pubblico italiano due anni fa a San Siro. Sì, perchè lui ed il suo pubblico di strada ne hanno fatta tanta. Tanti anni, tanti tour e altrettanti concerti sono passati da quella notte dell'85 in cui un giovane Springsteen e la sua fidata E Street Band entusiasmarono per quattro ore gli increduli fans italiani, in uno dei più bei concerti della storia del rock.
Poi qualcosa è cambiato, Bruce ha mollato l'E Street Band, ha composto canzoni più intime, più personali, ha indagato dentro sè stesso alla ricerca dei motivi di un matrimonio fallito. Ha trovato l'amore, quello vero, con Patti Scialfa, la corista della Band, e ha smesso di pensare alla musica come unica ragione di vita. Ha trovato il coraggio di posare la chitarra, come disse lui stesso anni fa in una intervista, per dedicarsi a sè stesso, alla sua vita. In questo percorso, artistico ed umano, il pubblico gli è stato vicino, lo ha coccolato, appoggiato ed ascoltato. Poi c'è stato il tour nei teatri, nel 1996, Bruce per la prima volta si esibisce tutto solo sul palco. E' teso e visibilmente emozionato: suonare solo, chitarra e armonica, senza il supporto di una band, è una esperienza nuova e non sa che effetto può avere sul pubblico. I fans lo sostengono, dimostrano di apprezzare i nuovi arrangiamenti e lui sembra trarre forza da loro: il "The Ghost of Tom Joad Tour" è l'ennesima dimostrazione di come quest'uomo non sia mai sceso a patti con niente e di come il successo planetario non abbia minimamente scalfito gli intenti di un tempo. Il 1999 è l'anno della riunificazione della Leggendaria E Street Band, è come ritrovare un vecchio amico e scoprire che puoi parlare facilmente con lui, come se gli anni non fossero passati affatto: per noi è stata un'emozione indescrivibile ritrovare lo stesso affiatamento, la stessa energia e la stessa voglia di un tempo di fare buona musica. Ora Springsteen ha deciso di cambiare nuovamente rotta e ha chiesto al suo pubblico di compiere un altro passo, un'ulteriore prova di maturità. Anche se la Band è perennemente riunita il "Devils & Dust Tour" vede il Boss nuovamente tutto solo sul palco, a dividersi tra le chitarre, il pianoforte e l'organo. Anche se le location sono i palazzetti, l'allestimento è di tipo teatrale, il concerto si segue seduti, in assoluto silenzio. Così mi ritrovo sabato 4 giugno con un biglietto in poltronissima, dodicesima fila, faticosamente conquistato dopo una lunga nottata in fila in una rivenditoria bolognese. L'emozione è tanta, ho cercato di colmare l'attesa aspettando Springsteen fuori dall'hotel in cui è solito alloggiare quando passa da queste parti, con esiti disastrosi. Per fortuna tra una settimana sarò a Monaco per vedere un'altra tappa del tour così avrò tempo per metabolizzare questo concerto e prepararmi ad un arrivederci che, speriamo, duri solo poco tempo. Qualche chiacchiera, qualche saluto e un attimo dopo mi trovo a pochi metri dal Boss, vestito con un'elegante camicia nera ed un paio di jeans. "My Beautiful Reward" ed una irriconoscibile "Reason to believe" aprono il concerto. "Devils & dust" e "Lonesome day" suonano bene nei loro arrangiamenti scarni, minimali. La voce, a volte forte, straziante, altre volte appena sussurrata, è ciò che colpisce di più. Come quando, in "Long time Comin'" Bruce si allontana dal microfono e con lo sguardo perso nel vuoto e con quella sua voce familiare, da cantastorie, ci racconta di come la nascita dei suoi figli sia stata una rinascita personale e di come sia difficile la vita nel ruolo di padre. Impossibile non emozionarsi, difficile trattenere un sincero applauso. Al piano Bruce si esibisce con i pezzi più datati "For You", "The River" e soprattutto "My Hometown". A Bologna e al pubblico italiano Springsteen regala un concerto sul tema della famiglia, forse perchè sua madre è di origine italiane, forse perchè quando passa da queste parti non può che sentirsi a casa. "My father's house" è una gemma rara, una delle canzoni più intense, eseguita solo nove volte, "Paradise" è ancora più toccante che nella versione sul disco. Le canzoni, ridotte all'osso, prendono forza dal loro carattere narrativo e, sul palco, sembrano sfilare tutti i personaggi che ci hanno fatto amare le canzoni del Boss: dal ragazzo che per il diciottesimo compleanno gli regalano la tessera del sindacato ed il vestito da sposo alla ragazza che lotta per affrontare le avversità della vita, dal soldato in Iraq mandato a combattere una guerra in cui non crede, al pugile suonato a cui non è rimasta alcuna illusione. Ai bis il compito di lasciare il pubblico con un messaggio di speranza: "Ramrod", "Land of Hope and Dream" e "The Promised Land", cantata alla maniera del "Tom Joad Tour", con quel tamburellare sulla chitarra che la rende vibrante, sempre sul punto di esplodere. Infine, un'ultima canzone, <<One more for Bologna...>>, "Dream Baby Dream", una cover dei Suicide: splendida, ipnotica, con quel ritornello che ti entra dentro, destinato ad accompagnare i nostri sogni più dolci <<Come on dream baby dream I just wanna see you smile>>.

Scaletta:
1) My beautiful reward - 2) Reason to Believe - 3) Devils and dust- 4) Lonesome day- 5) Long Time Coming - 6) Silver palomino- 7) For You - 8) The River - 9) State Trooper - 10) Maria's bed- 11) My father's house - 12) Reno- 13) Paradise- 14) Real World - 15) My Hometown - 16) The rising- 17) Further on up the road - 18) Jesus was an only son- 19) Leah- 20) The Hitter - 21) Matamoros banks- 22) Ramrod - 23) Land of hope and dreams - 24) Promised land - 25) Dream baby dream

 

Claudio Palestini

Recensioni – domenica 19 giugno 2005, ore 11.34

 


Olympiahalle (München), 13.06.05

La botta di solito arriva dopo. Prima ci sono gli istanti dell’irrealtà, dell’incredulità. Quando sono allo spettacolo di un mio idolo il tempo della prima canzone lo passo sempre a capacitarmi di essere davvero lì e la botta vera e propria la sento arrivare soltanto al secondo pezzo. Ed invece sarà tutto quello che c’è dietro la prima canzone di stasera, ma appena Bruce si siede al pump organ e attacca, sorprendendo tutti, “Into the fire”, sento gli occhi gonfiarsi, la schiena rabbrividire e se le gambe non tremano è solo perché al Devils & Dust Tour si sta comodamente seduti in poltrona. “Into the fire” è l’omaggio di Springsteen ai pompieri morti durante la tragedia dell’11 settembre («vorrei il tuo bacio/ma l’amore e il dovere ti hanno chiamato più in alto/là su per le scale/dentro il fuoco») ed apre una scaletta stravolta, con ben nove pezzi diversi rispetto alla data precedente.
“Reason to believe” è cantata a cappella, alla maniera degli urlatori blues, “Devils & dust” è già un must, lo capisci appena Bruce intona i primi versi («tengo il dito sul grilletto/ma non so di chi fidarmi»).
Poi ascolti “Long Time Comin’” con la seconda e la terza strofa cantate lontano dal microfono e ti chiedi se non si possa inserire tra le più belle canzoni springsteeniane di sempre.
“The river” è diversa, al piano diventa un’autentica torch song, complice il lamento finale che porta la nostalgia a coagularsi sulla pelle, sempre che non ci abbiano già pensato due dei versi più crudi dell’intero catalogo («un sogno che non si avvera è una bugia/o qualcosa di peggio?»). Inizia così la disquisizione di Bruce sul tema del sogno che troverà subito un appiglio sulla successiva “Book of dreams” e che proseguirà per tutta la serata.
“State Trooper” è resa, se possibile, ancora più inquietante della versione di “Nebraska”; Bruce canta esalando incubi e rantoli, se si chiudono gli occhi si direbbe la voce di un pazzo («forse hai un bambino/forse hai una bella moglie/la sola cosa che ho avuto io/è stato annoiarmi per tutta la vita»): uno dei momenti più intensi della serata.
Eccezion fatta per “The river”, nessun classico trova posto nella scaletta. Bruce avrebbe in canna colpi capaci di stendere qualsiasi tipo di platea, e invece lascia a casa “Badlands” e “Thunder road” e continua recitare le sue storie ‘minori’, come quelle di “Nebraska” e “Reno”, e a smorzare i toni, non caricando mai i ritornelli che, piuttosto che deflagrare, implodono diventando semplici appendici delle strofe. Ed è proprio lungo questo percorso coraggioso e pieno di polvere che succede quello che non avrei mai osato chiedere: Bruce al piano elettrico prende la mira e punta dritto al mio cuore, declama con dolcezza liriche che non mi lasciano scampo («dici ancora le tue preghiere, tesoro/ti metti ancora a letto la sera pregando che domani tutto andrà per il meglio/ma i domani si susseguono uno dietro l’altro/ti svegli e stai morendo e non sai neanche il motivo»). “Point blank” è una sferzata di dolore che, come tutta la musica di Springsteen, sa trasformarsi in urlo liberatorio. Si deve essere davvero fortunati per sentirne una versione live, e a questo punto, mi dico, potrei anche andare a casa.
Naturalmente non mi schiodo dalla seggiola e mi rendo conto che un po’ tutte le canzoni di “Devils & dust” rendono bene dal vivo e coinvolgono il pubblico; oltre alle già citate “Long time comin’” e “Reno”, raccolgono nient’altro che ovazioni le canzoni-gemelle “Maria’s bed” e “Leah”, la sentitissima “Jesus was an only son”, la storia di autodistruzione di “The hitter” e la commovente “Matamoros banks”, ossia come morire cercando la salvezza, ultimo tassello prima della pausa.
Quando scendiamo dalle gradinate per entrare nel parterre, scopriamo che qua le regole sono regole e, se hai un biglietto per le gradinate, nelle gradinate devi restare. Ma Bruce sta per uscire fuori per i bis ed, eufemisticamente, stiamo diventando impazienti. Io, mio cugino e mio zio lo mettiamo nel culo ai fottuti nazisti della security tedesca che fanno di tutto per fermare i ‘soliti italiani scalmanati’ che cercano di precipitarsi sotto il palco. Salto la staccionata come manco l’omino di oliocuore, ma quando penso di aver eluso la sicurezza, un marcantonio palestrato coi capelli a spazzola mi agguanta un braccio e mi porta via con disprezzo. Vorrei urlargli «mister, I ain’t a boy, no, I’m a man and I believe in a promised land», ma il suo sguardo ebete mi fa capire che non servirebbe, così cambio pezzo, mi metto la maglietta del “born to run fan club” e sguscio via e nessuno mi ferma più e arrivo sotto il palco a pochi metri da Bruce ma mi sono perso tutto il teatrino di “Ramrod”. Arrivo in tempo, però, per l’ennesima sorpresa della serata, quella “Bobby Jean” che ha l’odore di un buon sigaro fumato con un amico che non vedi da dieci anni, sotto un tramonto viola nostalgia. Dopo di che è soltanto sogno. Ancora sogno, dopo “The river”, “Book of dreams”, dopo i sogni lontanissimi eppure consanguinei dei protagonisti di “Point blank” («ho sognato che eravamo di nuovo insieme, piccola, tu ed io/di nuovo a casa in quei vecchi club come una volta») e “Matamoros banks” («la tua dolce memoria arriva col vento della sera/io dormo e sogno di stringerti ancora tra le mie braccia»). C’è il sogno di “Land of hope and dreams” e quello di “The promised land”, poi la liberazione finale, che arriva con le note di “Dream baby dream”, la cover dei Suicide che sta chiudendo tutti i concerti da un mese a questa parte. Bruce sciamanico si alza dall’organo e canta ad occhi chiusi e con la schiena piegata all’indietro. Poi saluta, stringe mani, si emoziona, ride e lascia il palco, mentre la musica continua a suonare e tutti i sogni cantati prendono posto dentro di noi per restarci chissà quanti giorni a venire. «Come on dream baby dream I just wanna see you smile yeah I'm gonna see you smile come on baby dream baby dream», mantra infinito.

Scaletta:
Into the fire / Reason to believe / Devils & dust / Lucky town / Long time comin' / Black cowboys / The river / Book of dreams / State trooper / Maria's bed / Nebraska / Reno / Point blank / Real world / The rising / Further on (up the road) / Jesus was an only son / Leah / The hitter / Matamoros banks;
Ramrod / Bobby Jean / Land of hope and dreams / The promised land / Dream baby dream

Pierluigi Lucadei

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Recensioni – domenica 19 giugno 2005, ore 11.34