Bruce Springsteen
“Devils & dust”

Etichetta: Columbia
Brani: Devils & dust / All the way home / Reno / Long time comin’ / Black cowboys / Maria’s bed / Silver Palomino / Jesus was an only son / Leah / The hitter / All I’m thinkin’ about / Matmoros banks
Produttore: Brendan O’Brien

C’è un soldato che combatte lontano da casa, c’è una madre che muore, e poi una prostituta, un pugile, Cristo che sale il Calvario, un cadavere con gli occhi divorati dalle tartarughe, e ci sono la polvere e il sole del confine ‘south-west’ nel nuovo lavoro di Bruce Springsteen. Ancora un disco intimo ed essenziale, dopo “Nebraska” (1982) e “The ghost of Tom Joad” (1995). Due delle nuove canzoni, “Long time comin’” e “The hitter”, risalgono proprio al tour di “Tom Joad”: per sua stessa ammissione, Bruce si ritirava in camera dopo i concerti e, non ancora stanco di cantare, scriveva canzoni. La title-track risale invece all’inizio della guerra in Iraq, nel 2003, e il disorientamento (“tengo il dito sul grilletto, ma non so di chi fidarmi”) e la disperazione (“ho Dio dalla mia parte, sto solo cercando di sopravvivere, ma se ciò che fai per sopravvivere uccide le cose che ami, la paura è qualcosa di molto potente”) del soldato sono quelli che molti americani devono aver provato senza trovare le parole giuste per esprimerli. Perché c’è poco da fare, quella di Bruce è la voce più autorevole d’America. Anche l’ultimo Tom Waits aveva dedicato una splendida ballata (“Day after tomorrow”) ai militari in Iraq, ma era come se la storia ufficiale non fosse stata ancora scritta, per quella si attende sempre la versione di Springsteen. Se l’America manda i propri giovani a morire a due continenti di distanza c’è qualcosa che non va, ci sono interrogativi irrisolti e pesanti, come quelli posti da “Youngstown”, dieci anni fa, quando i fabbricanti di armi si accorgevano che la ricchezza accumulata era servita soltanto ad uccidere i propri figli morti in Corea e in Vietnam. Con “Devils & dust” cambia lo scenario, il finale sembra essere lo stesso, con un taglio deviato di poco: il diavolo là invocato qua riempie l’anima del marine. Ma non c’è solo la guerra. “Devils & dust” è un disco (forse) inaspettatamente variegato: c’è lo Springsteen giocoso (“All I’m thinkin’ about”, addirittura in falsetto), quello mistico (“Jesus was an only son”), quello ‘di frontiera’ (“Black cowboys”, “Silver Palomino”). Ed è un disco in cui si canta. “Long time comin’” ha un ritornello che rimane attaccato già dal primo ascolto. E’ il ritornello che ci farà ricordare questa primavera, perché la speranza non è perduta tutta, a volte occorre aspettare, e la vita potrebbe arrivare tutta di colpo, anche sotto forma di una paternità. Onore a Bruce che l’ha scritto, semplice e profondo come solo lui sa: “c’è voluto tanto tempo, mia cara, c’è voluto tanto tempo, ma adesso il momento è arrivato”. Qua e là può capitare di soffrire per la mancanza della E Street Band, per esempio non si può fare a meno di immaginare una canzone frizzante come “Maria’s bed” suonata in versione ‘full band’, ma il gruppo è rimasto a casa stavolta, il solo Dan Federici compare in un brano. Eppure il disco ‘suona’, molto più di “Tom Joad” e questa è la più bella sorpresa di “Devils & dust”: merito di Brendan O’Brien (confermato produttore dopo l’ottimo lavoro su “The rising”), la cui mano è percepibile soprattutto là dove con semplici tocchi rende policrome canzoni che altrimenti sarebbero rimaste nude così come Springsteen le aveva scritte. E’ il caso di “Reno” e di “The hitter”, pezzi musicalmente scarni a cui fiati a archi leggerissimi donano un po’ di colore senza stravolgerne purezza ed efficacia. “Reno” e “The hitter” sono anche i due momenti più riusciti dal punto di vista narrativo: esplicito il primo, che ‘documenta’ con precisione l’incontro con una prostituta (“duecentocinquanta dollari e puoi mettermelo nel culo”), dolente il secondo, in cui un vecchio pugile racconta la sua vita (“sapevo che il combattimento era la mia casa e il sangue il mio mestiere”), entrambi racconti brevi degni di Carver, Hemingway, Cheever. Ma, in definitiva, “Devils & dust” è un disco di così grande bellezza, che parlare degli slanci hemingwayiani, della poetica degli umili steinbeckiana o del rigore alla Johnny Cash risulterebbe pleonastico oltreché odioso: Springsteen è Springsteen e tanto basta, il suo nome è già da molto tempo tra i più importanti della cultura americana, forse proprio al fianco di quello di ‘Papa’ Ernest. Con buona pace di De Gregori che, ultimamente, ha dimenticato di sciacquarsi la bocca prima di parlare del Boss.

Pierluigi Lucadei

DEVILS & DUST CANZONE PER CANZONE


1 DEVILS & DUST

Come in “Nebraska” e “The Ghost of Tom Joad”, anche in “Devils & Dust” la title track è posta come prima traccia dell’album e racchiude le tematiche poetiche e musicali che caratterizzeranno l’intera opera. “Cosa fai se ciò che ti fa vivere, uccide quello che ami?”. La questione è quanto mai esplicita. Ecco quindi il primo personaggio che si deve confrontare con questo dubbio: il soldato americano spedito in Iraq in nome di una qualche ideologia religiosa. Egli continua a ripetersi che Dio è dalla sua parte, ma nel frattempo la sua coscienza vacilla e si rende conto di non esserne più tanto sicuro. Così, nel momento in cui si trova ad uccidere, non riesce a premere il grilletto. E’ questa l’ennesima figura del soldato americano presente nelle canzoni di Springsteen, ma mentre in “Born in the USA” e in “Shut Out the Light” il veterano del Vietnam si sentiva tradito da una patria che non manteneva le promesse, qui il soldato mandato in guerra si sente ingannato da una società che vende per giusto ciò che è chiaramente sbagliato e che sfrutta gli ideali in cui crede per promuovere una missione altamente imprudente. Musicalmente “Devils & Dust” è una ballata acustica che, a molti, ha ricordato la canzone “Blood Brothers” presente nel “Greatest Hits”, con un crescendo di batteria e tastiere, quasi ad indicare la strada che percorrerà l’album, diviso tra pezzi acustici e pezzi full band.
2 ALL THE WAY HOME
“All the way home” è il rifacimento di una vecchia ballata che il Boss aveva scritto nel 1991 per Southside Johnny per l’album “Better Days”. Il protagonista non riesce a scrollarsi di dosso i fantasmi e i fallimenti del passato e cerca di andare avanti consapevole che “la prima scelta se n’è andata” e che il suo futuro è irrimediabilmente condizionato dalle ombre di un matrimonio fallito. Perciò le dichiarazioni d’amore piene di speranza di “Born to Run” lasciano il posto ad un invito timido e disilluso “se non vuoi restare sola potrei accompagnarti fino a casa”, perché “nonostante l’amore lasci solo ombre e fumi, andare avanti è la nostra triste natura”. Così l’atmosfera distesa della canzone di Southside Johnny diventa più cupa nella versione di Springsteen, con giro di chitarra ripetitivo e ipnotico come nucleo della composizione.
3 RENO
“Devils & Dust” è il primo album nella carriera di Springsteen marchiato negli States con l’adesivo Parental Advisory in copertina. La notizia aveva fatto inizialmente pensare ad una ghost track, la cosiddetta tredicesima canzone, che doveva essere “Pilgrim in the Temple of Love (Santa gets a Blowjob)”, canzone dal testo duro e sboccato, già ascoltata nei tour precedenti, che parla delle avventure sessuali di un babbo natale ubriaco fuori da un night club. La notizia è stata presto smentita e si è capito che la canzone dal testo giudicato troppo “forte” era “Reno”. Questa meravigliosa ballata country folk “stile Tom Joad”, racconta un rapporto sessuale, consumato a Reno, nel Nevada, terra in cui proliferano i Topless Bar, tra un uomo ed una prostituta. Anche qui il protagonista deve combattere contro i fantasmi del suo fallimento: una donna che un tempo aveva amato da cui è, però fuggito con la consapevolezza che “tutto ciò di cui hai bisogno, non basta quasi mai”. Così l’evasione dalla realtà, cercata tra le cosce di una prostituta, non fa altro che rinvigorire i rimorsi del passato.
4 LONG TIME COMIN’
“Long Time Comin’” è una canzone che i fan del Boss conoscevano già, poiché è stata spessa eseguita durante il tour nei teatri. La versione contenuta sul disco sorprende per il suo arrangiamento più vivace, con sonorità country rock che ricordano “Lucky Town”, con i cori, la pedal steel guitar ed il violino a costituire l’architettura musicale. Il tema centrale è quello della paternità: il protagonista decide di accettare le sue responsabilità e vede nella nascita del figlio una vera e propria rinascita personale ed interiore (“Stanotte sarò nudo come un neonato e seppellirò la mia vecchia anima”). Impossibile non pensare al Bobby di “Spare Parts” dell’album “Tunnel of Love” che, appresa la notizia della maternità della sua donna, si spaventa e fugge. Questa volta il protagonista riesce ad andare avanti nonostante l’amore che lo lega alla donna sia solo “la scintilla di un fuoco da campo da bruciare” e decide di affrontare con maturità la nascita del figlio (“Questa volta non manderò tutto a puttane”). “E se ho solo una speranza in questo mondo abbandonato da Dio, piccoli miei, è che i vostri sbagli siano solo vostri, che i vostri peccati siano solo vostri”: un altro cerchio che si chiude. Un cerchio aperto tanti anni fa, nel 1978, in “Adam raised a Cain”: “Sei nato in questa vita, pagando per i peccati che altri hanno commesso in passato […] Tu erediti i peccati, ed erediti le fiamme, Adamo allevò un Caino”. Sono passati tanti anni, i furori giovanili lasciano il posto alle apprensioni paterne.
5 BLACK COWBOYS
“Black Cowboys” è una canzone in puro “stile Tom Joad”, chitarra e voce. Per la prima volta nell’album vi è la figura della madre, custode della tradizione e balia protettrice. “Raney stai qui con me perché tu sei la mia benedizione e il mio orgoglio, ed è il tuo affetto che dà vita alla mia anima, voglio che torni a casa da scuola e resti qui”. Ma Raney deve vivere la sua vita e affrontare la società: accarezza i capelli e bacia gli occhi della madre. Trova, così, il coraggio di partire verso l’Oklahoma, la terra dei sui sogni infantili di cowboys, sparatorie e grandi praterie.
6 MARIA’S BED
“Maria’s Bed” è la canzone più energica dell’album, la batteria di Steve Jordan ed il viloino di Soozie Tyrell la rendono solare e vibrante, i cori accompagnano la voce del Boss, sorprendentemente dolce e delicata. Il protagonista è il primo personaggio dell'album che riesce a superare le difficoltà ("Sono stato su un'autostrada di filo spinato per quaranta giorni e quaranta notti") grazie alla tenacia del suo amore ("ma la mia anima è nel letto di Maria"). E' certamente la canzone di cui si nutre maggiormente la curiosità di ascoltarla un giorno dal vivo con tutta la E Street Band.
7 SILVER PALOMINO
In questa commovente canzone folk torna la figura materna. L'ambientazione è quella delle desolate lande del Sud, caratterizzate da "montagne dimenticate" e dalla selvaggia "pradera". Questa volta c'è una madre che muore e che lascia un figlio di appena tredici anni. Il dolore per la madre scomparsa è vivo e forte ed il paesaggio alimenta il ricordo di lei. "Mentre salgo posso sentire l'odore dei tuoi capelli; il profumo della tua pelle, mamma, riempie l'aria". Il figlio cerca di farsi forza con i suoi sogni infantili di "mustaneros" (cowboy) e cavalcate selvagge, fino a quando non decide che è ora di andare, sella il cavallo e cavalca a lungo per quelle montagne che hanno accompagnato la sua infanzia. Il tentativo di fuga da una realtà dura e dolorosa, è il primo passo della sua maturazione. Nel book allegato al disco c'è una dedica particolare: "A Fiona Chappel, per i suoi figli Tyler e Oliver".
8 JESUS WAS AN ONLY SON
Tra le figure materne che compaiono in questo album, non poteva mancare la madre di tutte le madri: Maria. La tradizione biblica, che ha spesso ispirato le composizioni di Springsteen (la già citata "Adam Raised a Cain", "Paradise", "The Rising", "The Promised Land", "Leap of Faith", ecc.), si inserisce con forza nel cuore dell'album, con questo pezzo delicato e toccante. "Gesù era un figlio unico" ci presenta un Gesù straordinariamente umano ed estremamente legato alla madre. Sul punto di morte, sul monte Golgota, Gesù deve combattere per vincere le sue paure ed i suoi incubi ("pregava per la vita che non avrebbe mai vissuto; pregò il suo Padre celeste affinchè rimuovesse la coppa della morte dalle sue labbra") e ci riesce grazie al contatto con la sua dolce madre ("c'è una perdita che non può essere compensata"). Così, nel rincuorare la madre riesce a farsi forza lui stesso. Musicalmente "Jesus was an only son" è una delicata ballata in cui la chitarra acustica è accompagnata da un tappeto di tastiere e da un coro appena sussurrato.
9 LEAH
Nuovamente l'amore come unica ancora di salvezza, nuovamente un passato da dimenticare e una vita da ricostruire. "Leah" riprende i temi di "Long Time Comin'" e, soprattutto, di "Maria's Bed", di cui è parente stretta anche dal punto di vista musicale: stessa atmosfera, stessa gioiosità dei cori e soprattutto stesso timbro di voce nel cantato di Springsteen. Il contenuto principale della canzone è la ricostruzione fisica ("voglio costruirmi una casa più in alto [...] di questa strada piena di ombre e dubbi") e morale ("c'è una vita che voglio cominciare").
10 THE HITTER
Come "Long Time Comin'", anche "The Hitter" è una canzone già ascoltata nel "The Ghost of Tom Joad Tour". E' la storia di un pugile della Louisiana che, persa la fama e il successo di un tempo, ripensa alla sua vita di fronte ad una madre comprensiva ma disillusa. E' sicuramente il personaggio che guarda con maggiore serenità il suo passato ("alla fine ogni uomo fa parte di un gioco e se ne conosci uno per cui non è così fammi il suo nome"). Egli non ha rimpianti, nella sua vita ha fatto la sola cosa che era in grado di fare: “ho abbattuto degli uomini, facevo quello che facevo con facilità, autocontrollo e pietà furono sempre stranieri per me”. Musicalmente è la canzone più riconducibile all’album “The Ghost of Tom Joad”, con un arrangiamento scarno e minimalista.
11 ALL I’M THINKIN’ ABOUT
“All I’m Thinkin’ About” è una dolce dichiarazione d’amore, un piccolo rockabilly spensierato e scanzonato: “tutto ciò che ho in testa sei tu, piccola”. E’ un ballata che potrebbe essere classificata come roots country, sia per le tematiche che per l’arrangiamento, che si distingue per il particolarissimo utilizzo del falsetto.
12 MATAMORAS BANKS
Il percorso artistico dell’album non poteva concludersi in modo migliore. “Matamoras Banks” torna sui temi, già trattati in “Sinaloa Cowboys” nell’album “The Ghost of Tom Joad”, degli immigrati clandestini, che, dal Messico, attraversano il Rio Grande per giungere in California. Questi disperati tentativi si trasformano spesso in tragedie. L’attacco è un duro colpo al cuore: “Per due giorni il fiume ti tiene giù”. Il tema della morte che accompagna tutte le canzoni dell’album diventa qui una cruda realtà: “le tartarughe mangiano i tuoi occhi che restano aperti verso le stelle”. Ma anche nella morte il protagonista trova l’unica ancora di salvezza nell’amore: “Addio, mia cara, ringrazio Dio per il tuo amore, ci vediamo sulle rive del Matamoras”. E’ un album di "uomini e donne in lotta contro i propri demoni", aveva avvertito Springsteen. In questa canzone, giustamente conclusiva, il protagonista ha già lottato e ha scelto di affrontare le difficoltà, in nome di un amore che da solo vale qualsiasi sforzo. Così, anche mentre sta affondando nelle acque del Rio Grande, il protagonista è accompagnato da una dolce quanto illusoria speranza, quella di rivedere la sua donna dall’altra parte del fiume. La serenità con cui affronta il fallimento, nella certezza di aver perseguito gli ideali di amore e libertà, indica la strada agli altri personaggi, presi dallo sconforto e dalla mancanza di fiducia. La domanda della prima traccia (“Cosa fai se ciò che ti fa vivere, uccide quello che ami?”) trova, quindi, la sua risposta conclusiva.

Claudio Palestini

Recensioni – giovedì 28 aprile 2005, ore 16.04