La forza del sesso debole:
tre storie più o meno drammatiche di donne infortunate.
Tre storie più o meno drammatiche di donne infortunate.
Storie diverse, eppure tutte hanno lasciato, oltre alla menomazione, una ferita
profonda nell’animo. La ferita esplode a volte nella notte in un incubo
che fa rivivere l’incidente a decenni di distanza. A volte si traduce
in uno stato di angoscia che riemerge prepotente. Si verifica anche in questi
casi quello che risulta dal sondaggio dell’ANMIL: l’elaborazione
psicologica del trauma non si compie nonostante il passar del tempo, e chissà
quando si compirà. Infatti una delle tre donne che abbiamo ascoltato,
ci ha pregato di non rendere pubblica la sua identità. C’è
quanto meno una sorta di pudore di sé – tipicamente femminile
– che forse altre non rivelano e che noi rispettiamo profondamente.
E allora useremo per tutte nomi di fantasia, le protagoniste si riconosceranno
nella descrizione, i lettori non avranno bisogno del reale dato anagrafico
per capire che si tratta di storie vere, di vita vissuta.
Vita vissuta pericolosamente, magari in ambiente mafioso, come quella di Assuntina
del casertano che, appena sedicenne, era già operaia in una piccola
industria alimentare di Teano. La ragazza, carina e per di più così
giovane, aveva destato gli appetiti di capi e capetti che lei non sapeva fossero
camorristi, alla testa di una attività di copertura per ben altri traffici.
E aveva detto no. Troppi no, a gente abituata ad ottenere quello che voleva.
Assuntina attribuisce al proprio rifiuto di “darsi”, il fatto
che un capo-meccanico l’avesse spedita al nastro trasportatore dei barattoli
di pomodoro da confezionare, in quel maledetto 1980. Non doveva andarci perché
non era la sua mansione, non era addestrata a padroneggiare il nastro. Eppure
stava lì quando zac!, un dolore lancinante alla mano sinistra (era
mancina) e fra le urla, fra gli zampilli di sangue si ritrova con l’avambraccio
maciullato.
Corsa in ospedale, amputazione, convalescenza. E’ tornata a casa da
un po’, quando i titolari dell’azienda si fanno vivi per offrirle
di tornare al lavoro. Strano, pensa lei, ma i suoi sospetti diventano più
che fondati quando un amico di famiglia raccomanda al padre di non permettere
alla ragazza di andarci: “La voglion’accidere – dice trafelato
– qualcuno di loro la inviterà fuori per un caffè, invece
l’ammazzeranno e la faranno scomparire dentro un pilastro di cemento
armato”. Con quel braccio amputato, spiega l’amico, Assuntina
è la testimonianza inconfutabile d’un incidente avvenuto in quella
fabbrica. Con il rischio perenne di un controllo da parte delle autorità
che potrebbero così scoprire la banda di criminali che – dice
– si nasconde dietro l’azienda di prodotti alimentari.
Ecco, in questo caso estremo si sommano tutti gli svantaggi della condizione
femminile nel mercato del lavoro. Essere giovane e meridionale, donna soggetta
al ricatto sessuale e all’emarginazione di genere, colpita dalla menomazione
fisica che non risparmia neppure il rapporto con il suo fidanzato che la lascia.
Il seguito della storia è quasi da manuale. Nel paese in cui vive,
la gente è spietata con lei, ironizza pesantemente sulla sua mutilazione.
Non si piega Assuntina, che oggi ha quarant’anni, lotta contro tutti
i pregiudizi, seppure con una mano sola fa la bracciante agricola, lavora
come spazzina comunale e nel cimitero cittadino. Fino al 1990, quando partecipa
ad un concorso pubblico aperto agli invalidi e viene assunta dalla ASL. Dopo
la chiusura dell’ospedale, passa all’Ufficio per l’assistenza
agli anziani dove si trova attualmente. Brutta esperienza anche questa, si
sente emarginata dal direttore, ma per fortuna adesso è agli ordini
di una dottoressa umana e comprensiva.
Però lei è bloccata nelle mansioni più basse, al terzo
livello. Ritiene di poter dare di più, passare di grado, ma i corsi
di formazione costano troppo e l’unico contatto con i computer fu quando
i medici le curavano la depressione con i giochi. Da notare che anche la formazione
è prevista dal disegno di legge bipartisan per il reinserimento delle
donne infortunate, presentato alla Camera da Carla Mazzuca (Alleanza Popolare-Udeur)
e Dorina Bianchi (Udc), sottoscritto da 80 fra deputati e deputate di ogni
schieramento.
Ma il prezzo più alto pagato da Assuntina per l’amputazione è
probabilmente sul piano affettivo. Il fidanzato non sopporta una ragazza monca
e sparisce. A 18 anni lei incontra un uomo apparentemente affettuoso, lo sposa
ed ha con lui una figlia. Ma lui è disoccupato, non va oltre qualche
lavoretto saltuario, chi porta i soldi in casa è lei, non tardano i
dissapori, lui diventa violento, la maltratta, la insulta per la mutilazione.
La coppia si trascina fino al 1991, quando i due si separano e la bambina
di nove anni resta ad Assuntina, la quale aspetta il 1997 per unirsi ad un
brav’uomo, addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti. Le sta molto
vicino, l’aiuta, nasce un’altra bambina.
Assuntina adesso è più serena, anche se lotta ancora in tribunale
per avere risarcimenti in una situazione in cui l’azienda dell’incidente
non esiste più, i suoi proprietari sono tutti morti in scontri a fuoco
tra bande rivali. La tragedia passata, ogni tanto riaffiora nella coscienza,
e lei vorrebbe scrivere il romanzo della sua vita per far sapere a tutti quanto
le è capitato e, soprattutto, alle donne in condizioni simili affinché
non si perdano d’animo, perché si può uscire anche da
sofferenze come le sue. Si può vivere anche con una mutilazione, vorrebbe
dire alla ragazza che aveva conosciuto 15 anni fa, e che si era gettata sotto
ad un treno perché non sopportava di aver perso l’uso delle gambe
in un incidente.
Altra storia è quella di Alessandra, l’infermiera di un ospedale
romano che mentre nel 1985 toglieva la flebo ad un ricoverato tossicodipendente,
l’ago le punse una mano. Anche questo è un caso emblematico,
perché dalle statistiche dell’INAIL risulta che nel pubblico
impiego gli incidenti sul lavoro riguardano in grande misura il settore della
Sanità. Si sa che la tossicodipendenza espone a rischi di malattie
gravi come l’Aids che si trasmette anche per via ematica e, quindi,
secondo le disposizioni ospedaliere, Alessandra venne sottoposta ad un trattamento
di immuno-globulina. Nessuno poteva sapere che, nel suo organismo, si annidasse
quel caso su un milione di allergia a questo trattamento, un po’ come
avviene a certi rarissimi bambini che non sopportano determinati vaccini.
L’infermiera rimase semiparalizzata, con il lato destro del corpo impedito
nei movimenti e quello sinistro nella sensibilità. Torna in piedi dopo
mesi di cortisone e fisioterapia, ma può lavorare di nuovo soltanto
dopo due anni di riabilitazione.
Non potrà tornare alla sua mansione, le difficoltà nei movimenti
lo impediscono, la mano destra non funziona, non ha forza muscolare sufficiente
per l’assistenza ai degenti. Deve accontentarsi di un’attività
sedentaria come quella della telefonista che raccoglie le prenotazioni. “Ma
non era questo lo scopo della mia vita”, confessa lei che amava il suo
lavoro e che oltre alla scuola per infermieri professionali aveva frequentato
diversi corsi di perfezionamento in materia sanitaria. Alessandra, con il
suo 55% di invalidità INAIL, sostiene che la voglia di crescere i figli
le ha fatto fare cose straordinarie superando la depressione incalzante, adattandosi
a tre mesi di fisioterapia ogni anno per compensare i deficit del sistema
muscolare.
Certo, questo è un caso ben lontano dalla drammatica vicenda di Assuntina.
Oltretutto il suo rapporto di coppia si è salvato, lei è riconoscente
al marito che si è rimboccato le maniche senza risparmiarsi nella cura
dei figli e della casa. Eppure anche Alessandra esprime il disagio di non
poter più esercitare compiutamente la sua professione di infermiera,
tanto che a 55 anni di età è pronta a studiare ancora pur di
sollevarsi da quel telefono dell’ambulatorio di medicina e ginecologia.
Si sente trattata diversamente dagli altri in quanto invalida, ai confini
di una condizione di mobbing.
In una struttura ospedaliera di Napoli lavora come amministrativa anche la
terza intervistata che chiameremo Antonietta. Una quarantasettenne che quando
di anni ne aveva 17, nel 1973, incollava tomaie in una fabbrica di scarpe
proprio nel capoluogo partenopeo. E’ noto che le colle in genere possono
essere abbastanza nocive, ma si dà il caso che quella usata nel laboratorio
in questione si fosse deteriorata e, per recuperarne l’efficienza, il
padrone avesse aggiunto una sostanza. Sostanza che in piccole dosi sarebbe
innocua, ma diventa tossica nelle dosi impiegate in quella occasione, con
conseguenze gravi sul sistema nervoso. Infatti Antonietta viene colpita da
una malattia che le provocava un progressivo indebolimento fino all’impossibilità
di stare in piedi per cui è costretta a muoversi in carrozzella.
Antonietta ricorda il lungo contenzioso fino al riconoscimento della malattia
professionale da parte dell’INAIL, che a quel punto ha messo a disposizione
della ragazza le sue strutture per la riabilitazione.
Ma si trattava appunto di una ragazza – ecco il disagio psicologico
oltre che fisico – che cercava di nascondere la sua infermità
agli occhi della gente, spesso abbandonata dalle forze finiva per crollare
in terra. Ora, dopo anni di riabilitazione, ginnastica e piscina, Antonietta
ha riconquistato una discreta autonomia, ma i danni permanenti al sistema
neurologico e muscolare a volte rendono incerta la deambulazione. Lei ha imparato
a convivere con i suoi problemi motori, è sposata, con due figli. Eppure,
trent’anni dopo, la notte ancora si sveglia con l’incubo di cadere
o con l’angoscia che la sua infermità le faccia nascere figli
malformati.
(fonte ANMIL)
Sociale, 2004-09-27