Charles R. Cross
“Cobain. Più pesante del cielo”
Ho diciassette anni e sto guardando la tv a letto in attesa
di addormentarmi, quando mio padre entra in camera.
“E’ morto il cantante dei Nirvana”, annuncia, “si
è sparato, l’hanno appena detto al Tg3.”
Spalanco gli occhi e la bocca e vado sul televideo a cercare la notizia. Kurt
Cobain si è tolto la vita, è scritto bianco su nero, io fisso
la pagina per almeno venti minuti e i due pensieri che si rincorrono nella
mia testa sono: “Vedi, lo sapevo, tutto il dolore che c’era nella
sua musica non era una stupida posa da rockstar maledetta” e “Chissà
se è stato il successo ad ucciderlo, chissà se si sarebbe ucciso
lo stesso se fosse stato il signor nessuno?”
A questo interrogativo non si può pensare di trovare una risposta senza
conoscere la biografia del musicista che, tra l’89 e il ’94, ha
rivoluzionato il mondo del rock. La vita di Kurt Cobain è stata un
tale insieme di dolore randagismo precarietà depressione solitudine
rancore sconfitte rivalse egocentricità inadeguatezza estro follia
e dolcezza che sfido chiunque, ora che sono passati undici anni e la sua morte
è stata pubblicamente metabolizzata, mercificata e quasi glorificata,
a ripetere uno di quei giudizi frettolosi che all’epoca non si fecero
attendere da nessuna delle migliori campane d’opinione, come se d’un
tratto anche l’ultimo appassionato di rock, anche quello che non aveva
neanche una lontana idea di cosa suonasse e cantasse Cobain, si sentisse in
dovere di dire la sua. Le ricordo benissimo quelle chiacchiere prive di senso;
non le ho rimosse quelle facili quanto stupide predicozze su come il suicidio
giovanile fosse in relazione con la musica hard rock e ricordo tal Paolo Crepet
precisare che “non è l’ascolto dell’heavy metal che
fa suicidare, è più corretto dire che un ragazzo ascolta heavy
metal perché ha propositi suicidi.”
“Più pesante del cielo”, la biografia scritta
dal giornalista rock Charles R. Cross, ha il pregio di raccontare con esattezza
ogni singolo aspetto dei ventisette anni vissuti da Cobain, senza mai scadere
nello ‘scandalismo’ e nella ‘mitizzazione’ di tanta
letteratura nirvaniana. Nelle quattrocento pagine del libro ci si imbatte
in un’adolescenza terribile, segnata dal divorzio dei genitori e da
notti ‘homeless’ passate in macchina o nelle sala d’aspetto
del pronto soccorso; si ripercorre la scalata al successo, dalle registrazioni
dell’album d’esordio con Jack Endino all’incredibile exploit
di “Nevermind”, il disco più famoso degli anni Novanta,
quasi interamente concepito pensando all’ex ragazza Tobi; ci si addentra
senza morbosità nella dipendenza di Kurt dall’eroina, anche questa
arrivata dopo la rottura con Tobi; si scopre la nascita dell’amore per
Courtney Love, i messaggi che i due si faxavano durante il corteggiamento
e l’arrivo della piccola Frances Bean; si passa per l’altro grande
disco dei Nirvana, “In Utero”, che Brian Willis di NME definì
“la vendetta di Kurt”, aggiungendo “se lo potesse sentire
Freud se la farebbe nelle mutande”, tanto il disco è intriso
di simboli e richiami all’infanzia; si arriva al tentato suicidio di
Roma con sessanta pasticche di Roipnol e a quello riuscito nella casa sul
lago Washington con una fucilata sul palato.
Quello di Cross è un libro plumbeo e dolente. Plumbeo come il suono
dei Nirvana, dei Mudhoney, dei Pearl Jam, degli Screaming Trees e delle tante
altre band di Seattle che fanno un concerto tutte assieme nella nostra testa
mentre sfogliamo queste pagine. Dolente come il nuovo modo di fare rock inventato
da Cobain, incentrato sulla debolezza piuttosto che sulla forza, sulla diversità
e non sul machismo: un po’ quello che Nick Drake aveva fatto con una
chitarra acustica, Kurt Cobain lo fece con una Fender Jaguar e, come per i
Beatles e per i Sex Pistols, dopo di lui il rock non fu più lo stesso.
Per questo cerchiamo di ricordarlo in nessun altro modo che non sia l’ascolto
di “Bleach”, “Nevermind” e “In Utero”,
concedendogli, come ha scritto Stefano Pistolini, “l’orgoglio
di sopravvivere solo nei suoi dischi, bellissimi riflessi entrati a far parte
dei rituali irrinunciabili attraverso cui un ragazzo s’immette sulla
strada per diventare uomo; o almeno vorremmo fosse così per il maggior
numero di ragazzi al mondo: perché diventare grandi senza aver ascoltato
i Nirvana è come andare a una festa e perdersi il momento del taglio
della torta.”
Pierluigi Lucadei
Recensioni – lunedì 4 aprile 2005, ore 11.27