Ani DiFranco
Firenze, Saschall – 30.03.05

Arrivo al Saschall giusto in tempo per godermi Andrew Bird che apre la serata. Bird è una one-man-band che soffre di una forma di follia tutta particolare, a tratti geniale. E’ armato di violino, Gibson Lucille, xilofono e fischietto e la sua musica sembra un originale incontro tra Radiohead, Morricone e Tom Waits.
Terminato il suo siparietto, vado al bar, dove incontro niente-popò-di-meno-ché un Piero Pelù particolarmente cordiale che mi parla del suo cruccio di non aver mai conosciuto personalmente il mio illustre concittadino Andrea Pazienza.
Poi si sentono le prime sferragliate della chitarra folk di Ani DiFranco e si torna immediatamente dentro il teatro. Ani è graziosa, non aggressiva come in passato, sorridente a più non posso. Firenze deve sembrarle casa sua, metà della platea è americana, l’altra metà è adorazione pura, e si diverte a raccontare aneddoti che le sono capitati camminando per la città. E’ una chiacchierona, tra una canzone e l’altra parla di sé, del suo paese, del suo mondo. Legge alcuni scritti (gli appassionati possono trovare una raccolta di sue poesie tradotte in italiano intitolata “Self-evident”, edita dall’encomiabile minimum fax) e non smette mai di sorridere. Ma quando gratta la chitarra la sua musica sa far male. Le canzoni sono imprudenti come schiaffi, anche le più dolci, che malcelano un’inquietudine mai risolta. Il pubblico reagisce calorosamente ai pezzi del recente “Knuckle down”, ma sono i classici a rendere il concerto un’esperienza emozionale insolita, in cui l’intimità creatasi fora quel velo che sempre si frappone tra artista e spettatori. Per “Little plastic castle” e “32 flavors” ci sono grandi applausi, per la mitica “Untouchable face”, che ha due lustri ma non li dimostra, cori e ovazione. Finisce dopo appena un’ora e venti ma il Saschall è tutto in piedi.

In quindici anni di attività, prolifici e intensissimi, Ani DiFranco si è guadagnata il titolo di cantautrice più rappresentativa della giovane America, un cantautrice diversa, riot e indipendente come nessuna. Lo dice lei stessa: “parlo senza riserve di quello che so e di ciò che sono; lo faccio con la consapevolezza che tutte le persone dovrebbero avere il diritto di offrire la loro voce al coro, non importa se in armonia o in dissonanza; senza le diversità, che sono ciò che ci differenzia, il canto universale è solo un canto funebre incolore ed è proprio la diversità che occorre celebrare, non condannare.”

Pierluigi Lucadei

Recensioni – giovedì 31 marzo 2005, ore 16.06