Tom Waits
“Real Gone”
Tra le altre cose il 2004 passerà alla storia anche come
“l’anno in cui Tom Waits fece quel disco pazzo”. Non che
i dischi di Waits da “Swordfishtrombones” in poi possano dirsi
“sani”, ma questo “Real Gone”, quanto a follia e strafottenza,
li supera tutti.
E’ un disco caldo, dal cuore enorme, che non mancherà di commuovere
ed eccitare. La difficoltà dell’ascoltatore sarà semmai
quella di arrivarci, al grande cuore di “Real Gone”, perché
esso è ricoperto da una scorza dura e all’apparenza impenetrabile.
Caracollante e sghembo il suono , niente pianoforte, è la chitarra
di Marc Ribot a infiammare la danza. Almeno tre pezzi (“Hoist That Rag”,
“Metropolitan Glide”, “Make It Rain”) sono irresistibili,
miscele polverose di blues e hip-hop, colpi di genio a cui forse più
di ogni altra si adatta la definizione dello stesso Waits: “funk cubista”.
“How It Gonna End” e “Trampled Rose”, rallentando
il ritmo, permettono alla voce dell’orco di farsi struggente; per lo
stesso motivo è impossibile rimanere indifferenti a “Green Grass”,
una preghiera di malinconia cosmica, nuda come una ferita (“lay your
head where my heart used to be/hold the earth above me/lay down in the green
grass/remember when you loved me”). In un disco perlopiù ostico
e schizzato, due brani entrano di diritto tra i migliori di sempre di Waits
già dal primo ascolto: “Dead and Lovely”, una murder ballad
cupa che richiama alla mente l’estetica del male cara a Nick Cave (“what’s
more romantic than dying in the moonlight?”) e “Day After Tomorrow”,
un pezzo a sé, posto nel finale, che sembra rubata al “Tom Joad”
di Springsteen: anche dall’altra parte della barricata si lanciano al
cielo preghiere per non morire, e allora “dimmi come fa Dio a scegliere
quali pregiere rifiutare”. Tom Waits al suo meglio.
Pierluigi Lucadei
Recensioni – venerdì 17 dicembre 2004, ore 18.45