Neil Young
“Greatest Hits”

Ultimamente sembra che una raccolta celebrativa non si neghi a nessuno. Limitandoci all’ambito rock, ne hanno pubblicata una di recente i Placebo, Marilyn Manson, i Travis: inutili per il semplice motivo che non si può raccogliere senza aver prima seminato e sette otto anni di pur onorata carriera sono pochini per farsi venire in mente che sia giunto il momento di celebrarsi. O è così o Bruce Springsteen e Patti Smith, che hanno aspettato 25 anni prima di dare alle stampe una raccolta, sono degli stupidi.
Niente da ridire, invece, sul “Greatest Hits” di Neil Young, che l’anno scorso ha festeggiato il quarantennale delle sue primissime incisioni e l’anno prossimo compirà 60 anni. Un greatest hits secco, teso, onesto, come la musica del più grande rocker canadese di sempre. Nessun inedito. Sedici classici che più classici non si può. Dalle celeberrime “Old Man” e “Heart Of Gold”, tratte da quell’”Harvest” che rappresenta tuttora un must per tutto il movimento alternative-country, all’irresistibile cavalcata elettrica di “Rockin’ In The Free World”, da “Like A Hurricane”, otto minuti di pura acidità younghiana alla maledetta “Hey Hey, My My”, con il verso più rimpianto della storia del rock (“is better to burn out than to fade away”, usato da Cobain nella sua lettera d’addio). Forse manca qualcosa (“Cortez The Killer”? “Philadelphia”?) ma con questi sedici pezzi anche chi non l’ha mai ascoltato prima può farsi un’idea di come Neil Young abbia scritto e suonato per tutto questo tempo e del perché i suoi colleghi lo adorino. Un lungo ruggito selvaggio.

BIOGRAFIA ESSENZIALE:
Neil Young nasce il 12 novembre 1945 a Toronto, figlio di un giornalista sportivo e di una casalinga. Nel 1966, con Bruce Palmer, Steven Stills, Richie Furay e Dewey Martin, forma i Buffalo Springfield, band che passerà alla storia grazie a canzoni come “For What It’s Worth” e “I Am A Child”. Nel 1968 esce “Neil Young”, primo album solista e nel ’69 il secondo, “Everybody Knows This Is Nowhere”, con i classici “Down By The River” e “Cowgirl In The Sand”. Il 18 agosto dello stesso anno Young suona con Stills, David Crosby, Graham Nash a Woodstock: i CSN&Y sono tra le rivelazioni del Festival e il disco che pubblicheranno di lì a qualche mese (“Deja Vu”) diventa subito riferimento imprescindibile del rock west-coast. Quando Neil Young torna alla carriera solista, lo fa nel migliore dei modi: due 33 giri mitici vengono pubblicati consecutivamente, “After The Gold Rush” (1970) e “Harvest” (1972). Da lì la carriera del canadese non si ferma più e, tra periodi neri (“Tonight’s The Night”), rinascite (“Rust Never Sleeps”, “Frredom”), crisi d’ispirazione (“Landing On Water”, ma un po’ tutti gli anni Ottanta), collaborazioni con colleghi più giovani (Pearl Jam, Sonic Youth…), giunge all’ultimo disco in studio, il concepì “Greendale” (2003).

DISCOGRAFIA CONSIGLIATA:
- EVERYBODY KNOWS THIS IS NOWHERE – Le canzoni metalliche di Neil Young cominciano a far scuola. Maratone elettriche cariche di passione e di onestà.
- AFTER THE GOLD RUSH – Il disco che ha influenzato generazioni di cantautori rock. Per molti il miglior Neil Young.
- HARVEST – Punto di non ritorno della carriera di Young, tanto da meritarsi un omaggio (“Harvest Moon”) vent’anni dopo.
- MIRROR BALL – Nel disco con i Pearl Jam, il suono è saturato, si sentono solo le chitarre. Ma “I’m The Ocean” vale da sola l’acquisto.

Pierluigi Lucadei

Recensioni – mercoledì 1 dicembre 2004, ore 18.55