Efraim Medina Reyes
“C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo”
Le giornate di Reptil sono piene di odio, di ore passate a fissare il soffitto o a ubriacarsi con gli amici, di dolore, di sfoghi improvvisi, di violenza, di sesso cercato e consumato alla velocità di un trainspotting.
Reptil è alla ricerca continua della liberazione, o forse dell’oblio, dopo essere stato abbandonato da “una certa ragazza”, non una qualsiasi, ma quella che gli ha lasciato un’”amore conficcato nel cuore”; caos e malessere; una sofferenza affilata come lama di bisturi; un amore chiuso a chiave.
Reptil è un duro, picchia quando necessario e ha un ego che straborda e annienta al solo contatto. Il suo pensiero è antitetico all’idea stessa del pensare. Reptil usa le cose, le ribalta, le succhia, le sporca. Le sue riflessioni bruciano più in fretta di una marlboro. Zero seghe mentali.
Così è, almeno, nella prima parte del libro. Più si va avanti, infatti, più i sentimenti di Reptil si fanno nitidi, il dolore limpido, la nostalgia crudele. (Ri)pensare l’amore: questo il suo cruccio.
Intanto si comporta come un canguro, congela carote, abbandona gli studi, beve come una spugna, gira film sperimentali.
Ascolta musica grunge e osanna due martiri del rock: Sid Vicious e Kurt Cobain. Nichilista e iconoclasta il primo, nichilista e iper-sensibilista il secondo. Reptil ne romanza le tribolate vicende, inframmezzandole alle sue.
Tutto si svolge in una Colombia che Colombia non è. Reptil ha un sogno: essere un newyorkese e lasciarsi alle spalle il folclore del suo Paese, le aberrazioni delle telenovelas, il pietoso realismo magico di tanta letteratura trapassata. Questo pensa di Marquez e Botero: “mi ricordano i lampioni della strada in cui sono nato; erano bruciati da secoli e nessuno si preoccupava di aggiustarli, dopotutto quando ancora funzionavano non servivano a un cazzo”. E ancora “Garcia Marquez è un pappagallo impagliato” e “se Botero è un artista, il mio uccello è d’oro zecchino”. Se il concetto non fosse chiaro: “so che Steve McQueen è mille volte più importante nella mia vita di Simon Bolivar”.
Macondo è sepolto sotto cumuli di cenere, Manhattan è la luce.
Dopo la ‘chemical generation’ britannica (Irvine Welsh, Will Self, John King…) e l’ondata pulp italiana (Ammaniti, Scarpa, Nove, il Brizzi di “Bastogne”…) anche l’America Latina ha i suoi ragazzi cattivi. Medina Reyes può essere considerato lo scrittore più rappresentativo, ma accanto a lui ci sono tanti talenti arrabbiati pronti a farsi conoscere: l’argentino RodrigoFresan, i cileni Alberto Fuguet e Sergio Gomez, il boliviano Paz Soldan.
Pierluigi Lucadei
Recensioni – sabato 23 ottobre 2004, ore 15.38