Nick Cave & The Bad Seeds
“Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus”
In quel lungo cammino attraverso il fuoco che è la discografia di Nick
Cave mancava un’opera come “Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus”,
un doppio album che racchiudesse le tante anime dell’artista australiano.
I blues infernali, le canzoni d’amore struggenti, gli agonizzanti inni
biblici e le ballate assassine. 17 canzoni, un’ora e mezza di musica:
“Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus” è per Nick Cave
quello che “The River” è stato per Bruce Springsteen, un’immersione
ubriacante nella sua musica, al termine della quale hai l’impressione
di esserti arricchito non poco. Cave continua a mettere una parola dietro
l’altra con un’autorità che non ha eguali nella canzone
d’autore contemporanea e la sua voce rende solenne anche un’inedita
folk-song bucolica e sbarazzina (“Breathless”). Magari non c’è
più la voglia di mettersi a nudo che ci fece amare “The Boatman’s
Call” e nemmeno il misticismo meraviglioso di “No More Shall We
Part”. Manca la forza disperata di “Tender Prey” e mancano
anche le massicce dosi di humor nero che fecero la fortuna di “Murder
Ballads”. La bellezza di quegli apici non viene qui raggiunta. Eppure
in "Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus" ci sono dei pezzi senza
i quali il canzoniere del Re Inchiostro sarebbe stato più povero. “Hiding
All Away” innanzitutto: un selvatico blues in cui i Bad Seeds paiono
divertirsi come ragazzini; e poi “There She Goes, My Beautiful World”,
un’irresistibile satira sul blocco dello scrittore che tira in ballo
Willmot, Nabokov, Karl Marx, Larkin, Dylan Thomas, e sputa in faccia alla
musa ispiratrice un "I look at you and you look at me and deep in our
hearts know it, that you weren’t much of a muse, but I weren’t
much of a poet”; “Nature Boy”, un inno rock alla maniera
di David Bowie che riafferma il valore arcano della bellezza in un mondo che
sembra averlo perduto in nome dell’atrocità e del nichilismo;
“Supernaturally”, una canzone d’amore travestita da carnevale,
chiasso e poesia rimescolati secondo la miglior ricetta di casa Cave; la conclusiva
“O Children”, una delle più belle canzoni sentite di recente,
arricchita dal London Community Gospel Choir, che rappresenta una delle due
novità del doppio album insieme alla chitarra acustica che fa capolino
di tanto in tanto.
“Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus” è il disco ideale
per chi non è stato ancora infettato dalla Cave-mania e vorrebbe vedere
che effetto fa. Certo non si tratta di operazione indolore. Neofita sei avvertito:
Cave penetra le tue viscere e si ubriaca bevendo vino dal tuo cuore, disintegra
le tue ossa e fuma la cenere come aperitivo. “If you’re gonna
dine with the cannicals, sooner or later, darling, you’ve gonna get
eaten” avverte in “Cannibal’s Hymn”, ed è proprio
così. Se si è giù di corda, Cave ti da il colpo di grazia.
Se si è felici, ti ricorda di non ridere troppo, ché l’apocalisse
è sempre dietro l’angolo. Nick Cave è l’ultimo dei
poeti maledetti, un esteta del male così come lo sono stati Poe e Baudelaire,
Celine e Lou Reed.
Pierluigi Lucadei
Recensioni – giovedì 30 settembre 2004, ore 19.51