Jeff Buckley
1994-2004: “Grace” compie dieci anni


Ascoltai “Grace” un mese dopo la sua uscita, incuriosito dalla recensione di una rivista specializzata che gli assegnava un bell’otto. Fu facile innamorarsene: quella sofferenza sublime, quel carico di emozioni, quelle melodie inafferrabili. E quella voce. Avevo diciotto anni e Jeff Buckley divenne dolce segreto del mio inverno, mentre lo stereo continuava a scuotersi con le distorsioni e gli umori plumbei di Seattle. Anche “Grace” era un album a tinte scure, di una ‘bellezza nera’, per rubare le parole di “Mojo Pin”, il primo brano (“black beauty, I love you so”). Era un oceano di sentimenti solcato in modo indelebile da un cantato che sapeva straziare con sussurri e aspirare all’infinito con acuti impossibili. Dentro c’era tutto ciò che chiunque avrebbe voluto dire, come poesia incapace di rifiutare il suo aiuto a chi intendeva buttarle fuori, certe cose. La copertina mostrava quello che sembrava l’ennesimo eroe ‘low profile’, un ragazzo con gli occhi chiusi e qualcosa di tragico che gli divorava l’anima, e le vendite furono dapprincipio scarse. La seconda metà del 1994 forse non era il periodo ideale per lanciare un album d’esordio, viste le contemporanee uscite discografiche di Neil Young, Pearl Jam, R.E.M., Grant Lee Buffalo, Black Crowes, Sebadoh, Jesus Lizard, Oasis, Ride, Dinosaur Jr., Tom Petty, Johnny Cash, ma Jeff Buckley proponeva una diversa via al rock, non era catalogabile in nessuna corrente, faceva la sua musica e la faceva divinamente, e “Grace” iniziò poco a poco ad incontrare i favori del pubblico, diventando uno straordinario ‘sleeper’ (quei dischi che non fanno il botto ma che vendono costantemente anche a distanza di tempo) e arrivando, nel corso degli anni, ai due milioni di copie.
Riascoltare “Grace”, ora che è passato un decennio, è un’esperienza, se possibile, ancora più bella. Ho la stessa età che Jeff aveva quando pubblicò queste canzoni e in ognuna di esse riesco a cogliere cento mille sfumature nuove, onde e risacche che mi erano sfuggite, maremoti da cui ero uscito indenne e che ora mi trascinano violentemente dentro quella dolceamara follia fatta di tutte le cose che si sono guadagnate l’eternità in due lustri di vita. “Last goodbye” è una gemma di dolore (“you gave me more to live for, more than you’ll ever know… why can’t we overcome this wall?”) incastonata in una perfetta melodia pop, “Lover, you should’ve come over” inizia alla maniera di “Pink moon” di Nick Drake e prosegue per quasi sette minuti come un rollercoaster delle emozioni, tra languori (“maybe I’m just too young to keep good love from going wrong”) ed estasi (“it’s never over, she’s the tear that hangs inside my soul forever”). E poi le incredibili intensissime interpretazioni di “Lilac wine”, che farebbe piangere anche un blocco di granito, e di “Hallelujah”, che Jeff canta accompagnandosi soltanto con la telecaster. Dieci canzoni in tutto. Dieci anni di vittorie e sconfitte; stagioni esaltanti e passaggi per l’inferno; la bellezza angelica dell’innocenza, il fascino ubriacante del peccato, la ‘grazia’ nascosta in un ‘per sempre’, la poesia della giovinezza.
Queste sono le emozioni, le mie. Da un punto di vista strettamente musicale, non si rischia di venir contraddetti affermando che “Grace” sia diventato, in questi dieci anni, un disco ‘di testo’, un’opera obbligatoria e di vastissima influenza su cui molti giovani artisti hanno studiato, basti pensare ai bellissimi Coldplay di “Parachutes”, che applicarono al brit-pop la lezione di Buckley.
In occasione del decennale, la Sony Music ha pubblicato una “Legacy Edition” di “Grace”, un triplo digipack contenente due cd e un dvd. Tra le rarità, i video e i brani live qui contenuti, spicca un inedito, “Forget her”, che originariamente avrebbe dovuto trovar posto in “Grace”, salvo poi essere sostituito da “So real”.


Pierluigi Lucadei

Recensioni – mercoledì 15 settembre 2004, ore 22.02