Hollywood continua a vedere Tim Burton come un “irregolare”. Quest’ultimo
suo film, in America, era uscito in appena 6 sale prima che i diversi premi
ricevuti e il passaparola degli appassionati gli dessero il salvacondotto per
il grande pubblico. In fondo, le poche volte che Burton si è piegato
alle regole dello show business, con “Mars Attack” e “Il pianeta
delle scimmie”, è stato flop, mentre i suoi film migliori (“Edward
mani di forbice”, “Ed Wood”, “Il mistero di Sleepy Hollow”)
sono quelli in cui fantasia e genio hanno avuto carta bianca.
“Big Fish” è un inno alla fantasia, all’immaginazione
come scelta di vita. Il protagonista, Edward Bloom (da giovane interpretato
da Ewan McGregor e da anziano da Albert Finney), è uno di quelli che
tra una realtà cruda e una realtà ritoccata e resa migliore da
incredibili invenzioni preferisce quest’ultima. Il suo appiglio filosofico
è il pesciolino rosso, che rimane piccolo finché piccolo è
il recipiente che lo contiene, ma può quadruplicare le sue dimensioni
se viene messo in una vasca molto più grande. Per questo Edward lascia
il suo paesino natale per scoprire il mondo, i suoi sogni, l’amore. Il
suo viaggio si rivela pieno di incontri da fiaba, con un gigante (troppo) buono
(Matthew McGrory), con un direttore di circo che diventa lupo mannaro (Danny
DeVito), con un poeta stralunato (Steve Buscemi) e con tanti altri personaggi
assurdi e affascinanti.
Ormai anziano e malato, Edward Bloom racconta storie a tutti, ed è così
abile da strabiliare ogni volta chi lo ascolta e da fargli rivivere sulla propria
pelle un pezzettino della sua vita straordinaria. Tutti lo adorano, tranne Will,
suo figlio, che non crede alle fantasticherie del padre e non ha mai stabilito
un vero punto di contatto con lui.
Sì, perché in realtà “Big Fish” è un
film sul rapporto padre-figlio e questa è forse la “debolezza”
che lo rende mieloso in alcuni passaggi, soprattutto se paragonato alle pellicole
più dark di Burton. “Big Fish” è superbo quando mostra
le picaresche avventure di Edward, con flashback visionari sfavillanti di colori,
mentre è meno efficace nel descrivere l’incomunicabiltà
prima e la riappacificazione poi tra Edward e Will. Riabilitante, dopo il buonismo
del tanto atteso “contatto” tra padre e figlio, è il funerale
di Edward, con la moglie Sandra (Jessica Lange) vestita di rosso e tutti gli
amici sorridenti a perpetuare le storie di una vita appena passata all’immortalità.
La morte vista come “una celebrazione di ciò che abbiamo costruito
durante l’esistenza”, nell’accezione di Burton.
I fan del regista rimarranno delusi, probabilmente, vista la scarsa vena gotica
del film (solo una strega bendata e qualche foresta carnivora a ricordarci il
Burton che fu), ma non potranno che rimanere incantati dal talento poetico che
si srotola purissimo nella scena, bellissima, in cui Edward vede per la prima
volta la donna della sua vita (in quell’istante, si dice, il tempo si
ferma, e si fermano anche le immagini) e in quella in cui tenta di conquistarla
portandole sotto casa un intero campo di asfodeli.
Pierluigi Lucadei
Recensioni – domenica 29 febbraio 2004, ore 22.58