MUSE
“Absolution”

L’apocalisse secondo Matthew Bellamy. In cinquantadue minuti il senso di irrealtà e disorientamento dei nostri giorni in un disco che è già un classico.
Il precedente “Origin of simmetry” era uscito nella primavera del 2001. Da allora ne sono successe di cose. In particolare, Bellamy sembra non riuscire a digerire la Seconda Guerra del Golfo. Quando canta “eternal victory” pensa in realtà “enduring freedom” e, se il suo pensiero non fosse chiaro, nel booklet fa stampare una parola in stampatello (“AMERICAN”) prima dei versi di “Apocalypse please”. Canzone grandiosa, “Apocalypse please”, un pugno in faccia a chi inneggia alle crociate senza accorgersi del baratro (“come on and change the course of history…and this is the end of the world”), così come “Butterflies and hurricanes”, canzone-simbolo dell’alienazione e della sua minaccia, che trasuda pathos dall’inizio alla fine (“change everything you are, everything you were, your number has been called”). Azzeccati gli arrangiamenti di “Time is running out” e “Stockholm syndrome”, i brani con cui “Absolution” è stato lanciato, due storie d’amore prossime all’epilogo. Ancora l’amore è al centro di “Sing for absolution”, un pezzo così morboso che fa tornare in mente certe cose di Morrisey. “Hysteria” è allucinazione e inquietante perdita di sè, “Blackout” e “Thoughts of a dying atheist” due gioielli, un colpo di genio la prima, commovente e liberatoria la seconda.
Anche in “Absolution” non manca l’abitudine dei Muse di mettere gli stessi versi nella prima e nella quarta strofa, il che dona ai pezzi una strana circolarità, e non mancano i feedback e le cavalcate elettriche, che mettono i bastoni tra le ruote a chi vorrebbe a tutti i costi accostare i Muse ai paladini della melodia inglese, Coldplay, Starsailor, Travis. Sono ancora i Radiohead il riferimento più prossimo, seppure in alcuni passaggi i Muse dimostrano di aver ben studiato l’arte di Jeff Buckley e dei Cure. Bellamy, però, ha deciso di ammettere preferenze meno cool, citando più di una volta, come fonte d’ispirazione, i Queen di Freddy Mercury.
Tra fascinazioni dark e flirt con la musica classica, in realtà, i Muse hanno già da tempo conquistato un posto a parte nel panorama musicale, un posto di primo piano, oltretutto. “Absolution” è il disco della consacrazione, frutto di una felice maturazione. Laciate da parte certe esasperazioni dei dischi precedenti, Bellamy fa dialogare chitarre e pianoforte con rara maestria, realizzando il suo disco più compiuto.
Troppo barocco per essere il “rock del duemila”, ma assolutamente vero e credibile. Qui l’autenticità passa anche per la facilità con cui questa raccolta di canzoni entra nel cuore. Una decina d’anni fa Richey James dei Manic Street Preachers fece parlare di sé quando si incise sul braccio “4 real”, come dire “non scherziamo col dolore, è tutto vero”. Anche l’amarezza e la desolazione dei Muse non sono pose da rockstar decadenti, l’angoscia di “Stockholm syndrome” e “Ruled by secrecy” è soffocante, l’urgenza di “Time is running out” l’unico modo di sopravvivere.

Pierluigi Lucadei