Eccolo l'atteso disco berlinese dei Marlene. Quello che
da sempre avrebbe dovuto essere finalmente è. D'altronde i Marlene
berlinesi lo sono sin dagli esordi, vuoi per il nome teutonico col quale
si sono ribattezzati, vuoi per le loro passioni musicali che hanno nella
capitale tedesca l'inevitabile crocevia. Non è lecito attendersi
novità dunque. I Marlene Kuntz sono tra le più coerenti
band europee ed il primo singolo chiarisce che il cordone ombelicale di
poesia trasgressiva e indipendente non è stato tagliato, fortunatamente.
Però qualcosa è cambiato. Indubbiamente il gruppo è
meno paranoico di esaltazione e, viceversa, meno esaltato di paranoie.
Il disco si apre con "Sacrosanta verità", melodia forte,
invitante e caratteristicamente scontrosa cinica, verace. E fin qui è
storia vecchia. Segue l'egoismo consapevole di "Ci siamo amati",
che non si lava via nemmeno nel verso "contagiosamente un batticuore"
perché anche quando pare plausibile un rendersi conto dell'altro
lancia un "che mi va di parlare"
tutto inutile, ma sfacciatamente
gode "proprio a tutto spiano". Anche la divinità che
accenna fra i versi appare come una statuetta di cera venerabile ma impotente.
Con "Notte" tutto diventa carezzevole e c'è un'alternanza
fra imperfetto incorruttibile e un presente ossessivo che forse, prima
o poi, concederà una novità che distragga. A questo punto
cominciamo ad aspettarci gli urli, i sussulti, le grida terrificanti e
tutto quel pianeta sbraitato che non può che essere abitato dai
Marlene. Ma niente, ancora niente. Niente di tutto questo in "Danza",
che pure ha un testo incredibile, niente ne "L'uscita di scena"
dove la morte non è paura ma illuminazione di voglie eccentriche,
di tetre apatie scandalose
"più o meno". Ancora
niente di passioni impazzite in "Schiele, lei, me", canzone
favolosa ad ogni modo. Cristiano riesce, con magia degna del poeta che
è, a far muovere un'opera d'arte di uno dei più grandi pittori
dei primi del Novecento: Egon Schiele. Ormai siamo in dirittura d'arrivo
e ci si sente ancora inappagati di energia che scatena ed esalta anima
e corpo, quel tipo di energia che può dare una canzone come "Sonica".
Si passa per una certa "Laura" che piange per amore (il testo
è meno bello degli altri). Si recupera una certa voglia sconclusionata
di parole in "Secondo chi vorrà" e nel verso "io
sono quello che anche tu sei" si riaccende un amore simile a quello
di "Cara è la fine", canzone-capolavoro di "Che
cosa vedi". E' un amore tutto proteso al dualismo vecchio come il
mondo mente-corpo, che se ne frega delle conseguenze che la morte può
apportare."Fingendo la poesia" è una lusinga (col rumore
del mare) intima ma volutamente comprensibile. Sono pensieri musicali
morbidi e solitari, con l'ingombrante presenza di chi vuole impicciarsi
senza motivo. E' la fine, superata "Scorre" e una spora interessante.
E si ha come l'impressione che tutto sia volteggiato senza peso, come
il camino dipinto da Schiele.
Nicoletta Lambertucci
Recensioni - Musica - 05 mar 2003, ore 13.53
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