Gino Paoli
“Sapore di note”

E’ un’autobiografia insolita “Sapore di note”, centocinquanta pagine che Gino Paoli ha scritto per l’editore Laterza mettendoci dentro “i miei affetti, i miei valori, le mie passioni”, come recita il sottotitolo. Paoli procede seguendo un ordine cronologico, è vero, ma, da anarchico autentico qual è, scrive come vuole quello che vuole, sorvolando magari su passaggi che il pubblico direbbe importanti e soffermandosi su particolari solo all’apparenza insignificanti, per illuminarli col suo punto di vista disilluso ma venato di finissima poesia.
Paoli inizia come pittore, si veste da esistenzialista col maglione nero a collo alto, ha un certo talento ma soldi in tasca pochissimi. Quando Nanni Ricordi gli offre la possibilità di incidere delle canzoni, non ci pensa due volte ad abbandonare la pittura per dedicarsi anima e corpo alla nuova attività. Per circa un anno incide cose che non piacciono neanche a lui, poi sopra un giro di Do alla chitarra scrive una filastrocca sulla defunta Ciacola: è “La gatta”, il momento della svolta. Paoli fa il botto in hit parade e diventa un’icona degli anni Sessanta scrivendo altri brani destinati all’immortalità, “Senza fine”, “Il cielo in una stanza”, “Sapore di sale”. Il decennio successivo è più tranquillo ma, a sentire lui, anche più appassionante: sono gli anni di Milano, dell’avventura della Senza Fine e di un album doppio che segna una linea di separazione tra due fasi completamente diverse della sua carriera, “Il mio mestiere”. Negli anni Ottanta arrivano la prima tournee con Ornella Vanoni, il successo ‘casuale’ di “Una lunga storia d’amore” e la deludente esperienza della politica. Nel ’91 Paoli torna in cima alle hit parade: l’album “Matto come un gatto” contiene la popolarissima “Quattro amici” e il cantautore è di nuovo su tutte le copertine. Il resto è storia recente. “Un altro amore” a Sanremo nel 2002, il premio alla carriera due anni dopo, una seconda tournee con Ornella Vanoni tuttora in corso.
La scrittura di Paoli è leggera e briosa, le cose tragiche e quelle piacevoli sono raccontate con lo stesso ghigno sardonico. Decine gli aneddoti tirati in ballo, difficile contare i passaggi illuminanti, forse uno a pagina. Paoli parla del mare («è come l’aria che respiro o i pomodori che mangio, è necessario»), degli sputazzi sul pubblico («l’acuto finale di “Sapore di sale” prevede un innesco, “sapore di…”, e una detonazione, “…teeeee”: con tutta la buona volontà quella T inevitabilmente spruzza un poco»), dell’avere vent’anni («mi accorgo spesso che troppi sopravvivono ai propri vent’anni conservando, per il resto del tempo a disposizione, soltanto nostalgia e rassegnazione all’impossibilità di tornare indietro: nel mio caso, il rischio era sopra la media») e tutte le volte ti viene in mente la sua voce o suoi baffi e ti monta la voglia di farci una chiacchierata a quattr’occhi. Perché se superi la scorza dura, lo sguardo schivo e l’individualismo aspro, Gino Paoli può aiutarti a disegnare il percorso ultimo dell’amore.


«Non potrei mai cantare la medesima canzone da più di quarant’anni – pensate ai miei ‘classici’, siano “La gatta” o “Il cielo in una stanza” – se ogni volta non fosse per me un’emozione diversa. E può succedere l’impensabile: che una serata, un certo pubblico, o un sogno fatto la notte prima, oppure un sorriso inaspettato che qualcuno mi ha rivolto durante la giornata, mi sbattono contro la canzone con un’intensità e un avvertimento di irripetibilità tali che, quando ci sono fino al collo, non so più se l’ho già cantata, o se la sto scrivendo lì su due piedi. Magari mi sta componendo lei.»


Pierluigi Lucadei


Recensioni – martedì 3 gennaio 2006, ore 22.00