Giancarlo Caselli – Livio Pepino
“A un cittadino che non crede nella giustizia”
Provare a ragionare con chi ha voglia e tempo di preoccuparsi
dei temi della giustizia è l’obiettivo di questo agile libro,
esempio lampante di come si possano affrontare temi apparentemente “pesanti”
in un centinaio di pagine dirette e di facile comprensione.
Il discorso dei due magistrati nasce dalla pacifica constatazione che in Italia
la giustizia non funziona, i tempi sconsiderati sono causa di disagio e sofferenza
per i cittadini che si imbattono in un processo civile o penale.
Parallelamente gli stessi cittadini si rendono conto dell’esistenza
di due tipi di giustizia: una per i così detti “galantuomini”,
considerati tali per collocazione socio-politica, per i quali il processo
è un lento misurare di giorni, mesi e anni fino alla prescrizione del
reato. Una seconda giustizia è per i cittadini qualunque, per cui il
processo incide profondamente sui beni, sulle relazioni, sulla vita più
in generale.
A riprova dell’esistenza, nei fatti, di due giustizie, c’è
anche la sostanziale differenza per quanto riguarda giudizi e pene: basti
pensare le pene irrisorie previste per reati quali falso in bilancio o corruzione,
a fronte di ben più pesanti inflizioni per disattesa di un ordine di
espulsione o semplicemente per uno scippo.
Va poi aggiunto che, mentre in tutti i paesi ci sono condizioni problematiche
circa il sistema giustizia, solo in Italia i magistrati si sentono chiamare
assassini, terroristi, manipolatori, antropologicamente diversi dalla razza
umana ecc…
Naturalmente anche questo cannoneggiamento continuo contribuisce al disagio
dei cittadini, soprattutto se proveniente da pulpiti particolarmente credibili
per il loro ruolo pubblico, a cui più facilmente i cittadini tendono
a credere.
Questo libro indica la necessità di recuperare la fiducia nella giustizia,
il che significa accettare la giurisdizione come garante dei diritti dei cittadini;
se questa accettazione non c’è, si sfibra un pilastro della convivenza
rispettosa. Perciò è evidente che della giustizia non si può
fare a meno, a condizione della consapevolezza che senza l’indipendenza
degli arbitri le regole sono falsate.
Addentrandoci nel “sistema giustizia” italiano, risulta del tutto
evidente come il processo, soprattutto penale, sia ridotto a un percorso ad
ostacoli, pieno di insidie e trabocchetti dovuti a cavilli e formalismi, mentre
dovrebbe essere una linea dritta, anche per eliminare il macigno degli arretrati
che paralizza i procedimenti penali.
Allo stesso tempo è necessario, come proposto dall’Associazione
Nazionale Magistrati, un sistema di controlli quadriennali sulla produttività
dei magistrati, per rispondere all’esigenza di dover rendere per un
servizio che i cittadini pagano. Ma ciò è fortemente rallentato
dalla cronica carenza di mezzi e risorse (cancellieri, segretari, informatici,
commessi…), che pesa in media negativa per il 15%, con punte del 30%
rispetto alla normale funzionalità degli uffici giudiziari.
La giustizia italiana è quindi un malato grave ma curabile, anche grazie
a un sistema che commisuri la pena alla gravità del reato, semplicemente
attraverso criteri di buon senso all’interno di una repubblica democratica
basata sul sistema capitalistico; il che non è difficile, basta riportare
il dibattito sui binari della razionalità, perché l’irrazionalità
genera mostri.
Caselli e Pepino concludono con un richiamo al bagaglio deontologico dei magistrati
canadesi, un decalogo del buon magistrato (“Sii gentile, paziente, dignitoso,
laborioso,…, ricordati che anche tu potrai essere giudicato”)
che considerano un ottimo punto di partenza per affrontare serenamente e concretamente
la questione giustizia.
Francesco Serafini
Recensioni – mercoledì 4 gennaio 2006, ore 11:51