E' da qualche settimana nelle librerie italiane, edito da
Feltrinelli, "La banda dei brocchi", l'ultimo romanzo di Jonathan
Coe, autore inglese tra i più amati da critica e pubblico.
Coe è un grande romanziere, un burattinaio attento e scrupoloso,
che fa muovere i suoi personaggi come esseri comuni e, al tempo stesso,
'mitici'. Qualche anno fa, con 'La famiglia Winshaw', aveva proposto un
quadro beffardo e pungente dell'alta borghesia degli anni Ottanta. Ora,
con 'La banda dei brocchi', fa un passo indietro, sposta l'azione nel
decennio precedente, dove un gruppo di liceali si muove con le indecisioni,
le paure, le idiosincrasie tipiche dell'adolescenza, in una Birmingham
grigia e operaia. Sono anni fondamentali per l'Inghilterra, i sindacati
combattono (e perdono) molte battaglie, l'IRA fa sempre più paura
e, sul finire del romanzo e del decennio, appare la sagoma 'di ferro'
di Margaret Thatcher. Ma Coe non cade nella trappola di scrivere un 'come
eravamo' zuppo di nostalgia; egli concentra, piuttosto, l'attenzione sui
moti, le idee, e, non ultime, le trasformazioni dei personaggi. Già,
perché 'La banda dei brocchi', alla fine, non è altro che
un grande romanzo di formazione.
La figura del giovane Benjamin Trotter è quella su cui Jonathan
Coe si sofferma maggiormente, offrendoci un ritratto appassionato di un
anti-eroe col quale molti potranno riconoscersi. Benjamin è un
solitario, conformista e ribelle insieme, uno che preferisce l'ombra alla
luce, il non-agire all'agire a tutti i costi, uno che dalla vita si aspetta
nient'altro che gloria ma che, in fondo, non fa nulla per ottenerla. Attorno
a lui gravitano Doug, figlio di un potente sindacalista, Harding, cinico
e fastidioso, e Phil, il più disincantato dei quattro. Sono loro
i 'brocchi' del titolo, quelli che sembrano non azzeccare mai la strada
giusta, e sono loro le adolescenze che ci tengono compagnia per le quattrocento
pagine del libro.
Pierluigi Lucadei
|