Arab Strap
“The last romance”

Etichetta: Chemikal Underground
Brani: Stink / (If there’s) No hope for us / Chat in Amsterdam, winter 2003 / Don’t ask me to dance / Confessions of a big brother / Come round and love me / Speed-date / Dream sequence / Fine tuning / There is no ending

Per chi scrive “Philophobia” è uno dei dieci migliori dischi degli anni Novanta. Secondo lavoro firmato da uno sconosciuto duo di Falkirk, Scozia, “Philophobia” esce nel ’98 e si fa strada in breve tempo tra migliaia di cuori annoiati dediti alla tristezza masochistica da musica pop di scuola Hornby, grazie a ‘racconti del cuscino’ di una schiettezza impossibile recitati su un tappeto sonoro fatto di trame elettr(on)iche ai limiti del post-rock molto in voga all’epoca. I due artisti che si nascondono dietro il nome Arab Strap, il cantante Aidan Moffat e il polistrumentista Malcolm Middleton, si fanno conoscere in giro per l’Europa e realizzano altri tre album che li consacrano come i cantori dello squallore delle relazioni interpersonali, senza peraltro superare mai gli apici toccati con “Philophobia”.
“The last romance” è il sesto disco degli Arab Strap e, in assoluto, quello più immediato. La differenza con i predecessori e, soprattutto, col capolavoro “Philophobia” si percepisce già dai primi istanti. Innanzitutto perché là dove Aidan recitava, qui canta. E non c’è una nota di troppo, non si indugia in eccessi nemmeno una volta, non a caso “The last romance” è anche il disco più breve degli Arab Strap, solo 35 minuti per i dieci nuovi pezzi, che per buona parte sono canzoni pop nel senso stretto del termine.
“The last romance”. Come “The week never starts round here” e “Philophobia”, ancora un titolo definitivo, che non ammette repliche. Non si corre mai il rischio di equivocare quando si ha a che fare con gli Arab Strap, quello che raccogli lungo il percorso da loro tracciato è solo verità nuda e cruda. Se i primi versi di “Philophobia” erano epocali («it was the biggest cock you’d ever seen/but you’ve no idea where that cock has been»), quelli di “Stink”, brano che apre “The last romance”, allo stesso modo non lasciano spazio a dubbi («burn these sheets that we’ve just fucked in/my weekend beacon, i’ve been sucked in/just one more time and then you’ll get tucked in»). E basta aspettare un solo minuto prima che Aidan coaguli il suo cinismo in uno di quegli slogan che lasciano spiazzato ogni ascoltatore dell’altro sesso («come with me, but this is the last time/understand you’re no more than a pastime»). “No hope for us” è in potenza una canzone dal forte appeal pop, con un chorus cantabile e sprezzantemente intrigante («if there’s no hope for us then there’s no hope for anyone/what chance can they have if even you and me just can’t have fun?/was it so long ago our friends said we were disgraceful?/but how could they ever know that we could be so unfaithful?»). “Chat in Amsterdam” offre un sovrapporsi cantato/recitato – già sperimentato dal Nick Cave di “The boatman’s call” – con risultati di bellezza assoluta. “Don’t ask me to dance” è l’amaro ritratto della vita che non può essere riavvolta, vita che ricomincia con una nuova persona, che promette un nuovo amore: nulla di nuovo, dice Aidan («you know I’ve felt like this before/I know you have felt it too/…/our lives did not begin/the very moment that we met»), solo un fioco entusiasmo che dovrà faticare parecchio per emergere da una disillusione monumentale («you’re no angel from above/you’re the last girl I will love»). “Come round and love me” è una languida ballata che Aidan ha cantato, sospettiamo fortemente, appena alzato o mentre era ancora a letto: puro sesso, dalla voce alla melodia, dall’arrangiamento al testo mai meno che esplicito («come round and love me/sigh and rumble above me/and we’ll make the noises we make/until we both laugh and both shake»). E se fin qui, nonostante le accelerazioni del ritmo, l’Arab Strap style era riconoscibilissimo, l’ultima parte di “The last romance” riserva non poche sorprese, sia nel taglio dei testi che negli arrangiamenti che chiamano alla mente questo o quel riferimento. “Speed-date” è una cavalcata alla Cure, “Fine tuning”, una morbida ballata folk, voce e chitarra alla Bright Eyes. “Dream sequence”, primo singolo estratto da “The last romance”, è un incredibile viaggio tra le braccia di Morfeo, in cui Aidan tiene bene a mente la lezione de “La casa del sonno” di Jonathan Coe («give me your gibberish tonight/and talk to me with your eyes shut/make me giggle in your sleep/and I can dream that you’re a slut/and when I wake up stiff/please just feel free to use me/then go to work and let me wonder/what it was that made you choose me»). La conclusiva “There is no ending” è una marcia trionfale costruita come un pezzo orchestrale dell’ultimissimo Nick Cave di “Abattoir blues”, con aperture cariche di speranza insospettabili fino a qualche tempo fa («not everything must end/not every romance must descend/not every lover’s pact decays/not every sad mistake replays/if you can love my growing gut, my rotten teeth and greying hair/then I can guarantee I’ll do the same as long as you can bear»). La gioia di quest’ultimo pezzo odora di arcobaleno, di sole e colori dopo buio e saette, tuttavia gli Arab Strap che continuano a farsi preferire sono quelli più torbidi, quelli sporchi di liquidi organici, quelli che, armati di lente d’ingrandimento, vanno a scovare le tarme affamate di sentimenti umani che ogni relazione cova dentro sé. E anche se quella di Aidan Moffat è la peggior educazione sessuale che si possa immaginare, un brano come “Confessions of a big brother”, forse il migliore della raccolta, è, tra una rivelazione e l’altra, ricco di insegnamenti («I don’t want to spoil your fun/but you don’t have to hurt someone»). Chitarra acustica, violoncello e la voce pigra di Aidan in primo piano: gli Arab Strap nel loro splendore decadente e irresistibile. Ancora una volta fuori da ogni convenzione, spudorati, caustici, spiazzanti, gli Arab Strap continuano a ritagliarsi un angolo tutto loro nella cartografia del rock e restano, per chi scrive, tra le più grandi band di sempre.

Pierluigi Lucadei


Leggi la recensione di “Philophobia” http://www.ilmascalzone.it/re02.htm


Recensioni – sabato 22 ottobre 2005, ore 9.07