Paul Auster
“Follie di Brooklyn”

Quello di “Follie di Brooklyn” è il Paul Auster più
divertente, lo stesso di “Smoke” e “Blue in the face”.
Dopo due romanzi drammatici come “Il libro delle illusioni” e
“La notte dell’oracolo”, lo scrittore del New Jersey torna
con una commedia umana di pregevole fattura, movimentata, gradevolissima e
di sicuro divertimento.
Protagonista è Nathan Glass, un sessantenne reduce da un matrimonio
andato a rotoli e da un tumore ai polmoni, che torna dopo una vita a Brooklyn,
con gli unici scopi di trascorrere in tranquillità i suoi ultimi anni
e di scrivere quello che ha chiamato “Il libro della follia umana”,
il racconto di tutte le cose strambe che ha visto accadere durante la sua
lunga carriera di uomo. Il destino, però, non ha ancora finito di divertirsi
con lui. Ecco dunque una serie di personaggi eccezionali che rende il ritorno
di Nathan nel suo quartiere natale ricco di sorprese e (dis)avventure: dal
nipote Tom, un trentenne precocemente ingrassato e intristito, ex studente
di belle speranze che si è riciclato come tassista e commesso, a Harry,
un truffatore omosessuale, proprietario del negozio di libri usati in cui
lavora Tom; da Nancy, la donna più bella della città, sposata
con tipo di nome James Joyce, a Marina, una cameriera così carina da
far invaghire il vecchio Nathan e da procurargli un pauroso faccia a faccia
con Mister Disastro; dal reverendo Bob, che costringe i fedeli della sua setta,
il Santo Verbo, a gettare via televisori e telefoni e a vivere nel silenzio,
a Lucy, figlia dell’altra nipote di Nathan, Aurora, che arriva all’improvviso
a sconvolgere l’allegra comitiva.
“Follie di Brooklyn” è un romanzo dal forte sapore cinematografico,
non è difficile immaginare Harvey Keitel (che ha interpretato magnificamente
al cinema “Smoke” e “Blue in the face”) nel ruolo
di Nathan Glass, ed ha nei dialoghi qualcosa di più di un semplice
punto di forza (“e dove vuoi che andiamo, caro Tom?”, dice ad
un certo punto Harry, “Siamo seduti in attesa della prossima portata,
bevendo una stupenda bottiglia di Sancerre e dilettandoci con storie senza
senso. Non c’è nulla di sbagliato. Nella maggior parte dei luoghi
del mondo sarebbe considerato il massimo della civiltà”). Paul
Auster ancora una volta veste di colore un quartiere e lo innalza al ruolo
di coprotagonista, tanto che il lettore finisce inevitabilmente per chiedersi
se vicende come queste possano succedere in un altro posto, un posto diverso
da Brooklyn, “con il suo mutevole calderone di bianchi e mori e neri,
il suo coro a più strati di accenti esotici, i suoi bambini e i suoi
alberi, le sue famiglie piccolo-borghesi che faticano, le coppie lesbiche,
i negozi di alimentari coreani… le campane delle chiese e i diecimila
cani, la popolazione sotterranea di rovistarifiuti senzacasa solitari che
spingono i carrelli del supermercato lungo i viali e cercano bottiglie nella
spazzatura”.
Nelle ultime pagine si intravede l’ombra di George W. Bush, che Tom
e Nathan considerano una pericolosa minaccia, e il romanzo si conclude significativamente
la mattina dell’11 settembre più noto della storia, soltanto
quarantacinque minuti prima dell’attacco al World Trade Center. Come
se dopo quel giorno il lieto fine non fosse più possibile.
Pierluigi Lucadei
Recensioni – martedì 13 settembre 2005, ore 16.50