John Fante: La confraternita dell’uva
Che dreadful imbroglio!

Non più di quattro ore e mezzo. Tanto vi basta per divorare tutto d’un fiato il romanzo che rappresenta il “monumento” di pietra lucente che il figlio Henry (John) dedica al padre. John Fante è nato a Denver (Colorado) l’8 aprile 1909, figlio di un emigrante italiano giunto in America nel 1901. Dopo la quadrilogia Bandiniana di “Aspetta primavera, Bandini”, “Chiedi alla polvere”, “La strada per Los Angeles” (scritto nel 1935, ma pubblicato postumo nel 1985) e “Sogni di Bunker Hill” e dopo una altro romanzo capolavoro come “Full of Life” pubblicato nel 1952, bisogna attendere il 1977 per vedere la luce definitiva de “La confraternita dell’uva”.
La storia si snoda (apparentemente) intorno alla figura del padre, emigrante abruzzese di Torricella Peligna (Chieti), che ha passato un’intera vita a costruire case, palazzi, scuole e statue modellando con le sue mani tozze e callose la gelida pietra con la maestria e la passione dell’artista in preda all’orgasmo creativo. Ma come tutti i grandi artisti anche Nick Molise non trascorre una vita tranquilla. Ha una moglie, una bigotta cattolica che come tale fiuta ovunque peccato e corruzione, a volte realmente presenti a volte completamente assenti, che aspira a essere una buona cristiana, ma che in realtà si siede al tavolo della vita con un asso nella manica: il compatimento e l’autocommiserazione. Nick non l’aiuta a renderla felice: ogni sera ubriaco, non di rado la tradisce e quello che faticosamente guadagna viene abbandonato sui tavoli verdi dei tanti Casinò di San Elmo, prima che le tasche di quei pantaloni sporchi e trasandati possano essere rovistate dalla moglie alla ricerca di qualche spicciolo residuo. Ormai vecchi non passa occasione per non litigare, ma un giorno la situazione precipita. Lei lo accusa di adulterio, lui la percuote. Mario, il figlio rinnegato di Nick, vede tutto e corre dalla polizia per consegnarlo alla giustizia. Dopo che il padre è stato faticosamente arrestato Mario ci ripensa e ritira la denuncia, ma ormai il danno è fatto. L’odio già viscerale monta ancor di più. Virgil, il figlio “per bene”, se ne vuole lavare le mani per non compromettere oltremodo la sua posizione in banca, mentre Stella, l’altra figlia, non riesce a fare granché. Solo una persona può risolvere il problema: Henry. Lui, lo scrittore, quello a cui il padre invano ha sempre urlato di trovarsi un lavoro serio seppur con più di un ripensamento decide di non abbandonare i suoi vecchi. Ma al suo arrivo, le acque sembrerebbero che si siano già calmate. Mario ha i Giants in Tv e “Bobby Murcer alla battuta con due uomini in base”, la madre piagnucola un po’, ma in fondo è sempre lei e il padre è il solito cocciuto musone di sempre. D’un tratto la mamma accenna a Henry di un lavoro, “una cosa che sa di segreto, misterioso, cospiratorio”, che sconvolge i piani di Henry. L’artista deve compiere l’ultima grande opera, deve lasciare l’ultimo segnale tangibile della sua grandezza: costruire un affumicatoio a Monte Casino, Henry dovrebbe solo impastare la malta. Ma Henry odia impastare la malta, l’ha sempre odiato. Tra l’altro Henry odia anche gli amici del padre: Joe Zarlingo, Lou Cavallaro e Bosco Antrilli. Compagni di sventura, naufraghi per loro stessa scelta nel mare del gioco e del divino Chianti che esce dalle cantine di Angelo Musso. Oracolo muto, che dispensa nettare per regalare felicità. “È meglio morire tra gli amici che tra i dottori” sostiene. Come dargli torto? E il vino è la vite e la vita, il filo di Arianna di tanti emigranti, dei daghi italiani che sono stati costretti a lasciare la propria casa e la propria mamma. Quante lacrime versa ancora Nick, ormai settantaseienne, per la sua… Però Henry ancora di più non digerisce l’idea di abbandonare il padre. Il dilemma lo attanaglia, ma da qui in poi, raccontarvi dei pensieri, dei dubbi, delle paure e delle speranze di Henry sarebbe un delitto.
Il racconto è pregno di una schizofrenia dilagante. Nessuno dei personaggi è in grado di tenere fede ad una coerenza emotiva per più di un paio di pagine. Felicità si alterna a rabbia, il pianto lascia il posto al riso, l’urlo alla tranquillità di un pomeriggio alla tv, l’ammirazione per il padre all’odio profondo che Henry prova per lui, per avergli per tanto tempo negato la possibilità di spiccare il volo. E non solo a lui. Così facendo, però, il monumento al padre, diventa in realtà un monumento al figlio. È Henry che ci descrive tutte le scene, le sue sensazioni, ma anche quelle degli altri. I flash back si susseguono in tutto il romanzo, ma talvolta ci si accorge di aver fatto il salto nel passato soltanto dopo qualche riga, tanta è la facilità con cui Fante riesce a calare la carrucola nel pozzo della memoria. Tristemente malinconica la realtà che fa da sfondo al romanzo. La realtà di tante famiglie proletarie italiane catapultate negli Stati Uniti ad inizio ‘900, che morirebbero dalla voglia di trasformarsi in famiglie borghesi. Ma il gioco riesce solo a metà. Della borghesia vengono presi gli aspetti più negativi: l’apparire prima dell’essere ad esempio. E così diventa importante sapere cosa gli altri pensano o potrebbero pensare. L’azione va meditata con calma, altrimenti si rischia di finire sulla bocca degli altri. Ma i Molise sono proletari. Non c’è nulla da fare: l’impulsività prima di tutto. Neanche Henry ce la fa a rimanere borghese.
Fortuna che alla fine c’è una coscia d’agnello e la mamma “tiene pure le patatine novelle”.

Armando M. Corsi


Recensioni – lunedì 11 luglio 2005 – 00:59