Ron Butlin
“Il suono della mia voce”
Morris Magellan è un dirigente di successo in un’azienda
di biscotti in Scozia, ha una bella moglie e due splendidi bambini. Vive in
un quartiere residenziale, conduce quella che apparentemente è una
vita agiata. Eppure Morris ha trentacinque anni e ha passato gli ultimi venti
in compagnia di un disagio che solo l’abuso di alcool riesce a zittire.
La sua è una lenta e angosciosa deriva, un continuo perdersi tra realtà
e delirio, tra bicchieri che si accumulano uno sull’altro, schiacciando
tutto, perché «c’è la paura dell’immortalità
nella pausa tra una bevuta e l’altra».
“Il suono della mia voce” è l’asciutta confessione
di un uomo che si porta sulle spalle il peso di due vite, quella con l’alcool
e quella senza, «e in questo modo non solo stai dando fondo alle tue
energie, ma ti rendi conto di aver perso di vista lo scopo, qualunque esso
sia, di questo faticoso esercizio». La scelta della narrazione in seconda
persona enfatizza la confessione e rende “Il suono della mia voce”
una sorta di “Le mille luci di New York” scozzese. Il romanzo
di Butlin, tra l’altro, risale, come quello di McInerney, proprio agli
anni Ottanta: è stato pubblicato per la prima volta in Inghilterra
nel 1987, è stato riscoperto da Irvine Welsh e recentemente ha conosciuto
il successo in Francia, dove si è aggiudicato il Prix Mille Pages 2004
e il Prix Lucioles 2005 come migliore romanzo straniero.
Proprio la lucidissima introduzione di Irvine Welsh a quest’edizione
italiana de “Il suono della mia voce” riesce a cogliere nel segno,
sottolineando come l’opera di Butlin fosse avanti per la sua epoca,
e in un periodo come quello tatcheriano, in cui la Gran Bretagna non si tirava
indietro quando si trattava di esercitare la propria egemonia culturale, quanto
un romanzo del genere potesse sembrare destabilizzante. Perché, sotto
la storia di Morris e della sua circumnavigazione del dolore, c’è
proprio questo: «una critica pacata ma in fin dei conti implacabile
e senza compromessi nei confronti del suo tempo».
De “Il suono della mia voce” hanno detto:
«uno dei romanzi più originali e coraggiosi che siano mai stati
scritti in Scozia» (Ian Rankin);
«il libro di Butlin è un trionfo di stile» (Irvine Welsh);
«un’opera straordinariamente ricca di forza e redenzione, che
colpisce tanto per il linguaggio quanto per la sua capacità di suscitare
emozioni; l’unico precursore di Butlin è Kafka» (Nicholas
Royle).
Pierluigi Lucadei
Recensioni – giovedì 16 giugno 2005, ore 16.49