Arriva finalmente nelle sale italiane l'ultima fatica di Spike Lee. Lee,
riconosciuto un tempo come il caposcuola del nuovo cinema nero, dopo i
successi di "Fa' la cosa giusta" e "Jungle Fever",
è inciampato ripetutamente nel suo impeto pedagogico e nella sua
oratoria prolissa, col risultato che film come "Malcolm X" e
"Clockers", seppur buoni, non hanno saputo cogliere il consenso
di critica e pubblico. Ora, con "He got game", presentato fuori
concorso alla 55^ Mostra di Venezia, il cineasta statunitense è
tornato a mettere d'accordo tutti. Grazie a una sapiente regia. Ad azzeccati
dialoghi (rovinati, però, non poco dal doppiaggio italiano).Ad
interpreti in gran forma (Denzel Washington, Milla Jovovich, Joohn Turturro).
E, soprattutto, grazie ad una bella storia, intima ma solenne, difficile
ma sincera. Jesus, un ragazzo straordinariamente dotato nel gioco del
basket, si trova di fronte alla scelta della vita: entrare nella squadra
universitaria o correre a far soldi nel campionato professionistico. La
scelta è complicata dal rapporto con il padre, da sei anni in galera
per l'omicidio involontario della moglie, al quale il governatore <<regala>>
alcuni giorni di libertà per convincere Jesus a giocare nell'università
di stato. Tra un canestro e l'altro si respira aria di playground, di
sudore e impegno. Voglia di correre e saltare. Magari per acciuffare al
volo il sogno di tutti i ragazzi di colore, abbandonare le strade di Brooklyn
per entrare a far parte del gotha della pallacanestro mondiale, quella
ristrettissima cerchia di campioni che sono i professionisti della NBA.
Spike Lee è maestro nel riprendere le sequenze di gioco, dove i
corpi dei giocatori, perfetti e luccicanti, sembrano i protagonisti di
una tragedia greca. Ma è maestro anche nel trasformare un film
sul basket, come "He got game" inequivocabilmente è,
in un film sulla corruzione dello sport, sulla sporcizia e sui grandi
affari che gravitano attorno ad esso, e, principalmente, in un film sulla
famiglia e sul rapporto padre-figlio. Lee non cade nel tranello di rifare
il solito melodramma bugiardo e, in maniera tutt'altro che banale, concentra
l'attenzione sul personale cammino del ragazzo, tirato da più parti
come fosse mera merce di scambio, colpevole soltanto del suo talento.
Insomma, Spike Lee sembra tornato il ragazzo prodigio che, nella seconda
metà degli anni '80, entusiasmò il cinema indipendente americano.
Prodigio lo è ancora. Indipendente chissà. Troppe riprese
<<basse>> di calzature testimoniano a suo sfavore.
Pierluigi Lucadei
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