Speciale Marlene Kuntz:
disco, libro e intervista
di Pierluigi Lucadei
Il disco: “Bianco sporco”
Etichetta: Virgin
Brani: Mondo cattivo / A chi succhia / Il solitario / Bellezza / Poeti / Amen
/ Il sorriso / L’inganno / La lira di Narciso / La cognizione del dolore
/ Nel peggio
Produttori: Marlene Kuntz
Recensiamo con qualche settimana di ritardo il nuovo disco dei Marlene Kuntz,
ma c’è una logica in questo. “Bianco sporco” è
un lavoro difficile, richiede attenzione e pazienza, il singolo “Bellezza”
è l’unico brano immediato, gli altri dieci non si fanno canticchiare
e si lasciano amare poco a poco, in un crescendo emozionale che, ascolto dopo
ascolto, travolge qualsiasi spirito sensibile alla materia qui cantata, materia
poetica, e colloca il disco tra i migliori incisi dalla band piemontese. Indiscutibilmente,
è il primo album di un nuovo corso, il primo album ‘adulto’;
non che in precedenza i Marlene Kuntz fossero dei ragazzini pretestuosi, tutt’altro,
ma dentro “Bianco sporco” c’è il rock che Godano,
Tesio e Bergia suoneranno a quarant’anni, età, ormai prossima,
in cui spesso il rock si reinventa e matura. La maturazione dei Marlene era
in atto da tempo ma mai come ora si era fatta chiara la direzione intrapresa.
Scomparsi gli impasti chiassosi e gli inni sonici, il rumore resta soltanto
a sporcare le ballate dei Marlene Kuntz, perché “Bianco sporco”
può anche essere definito così: un disco di ballate. Tra un
pezzo che si ispira ad un’opera di Gadda (“La cognizione del dolore”),
un altro che chiama in causa un grottesco Don Chisciotte (“Amen”),
quattro brani si distinguono per intensità emotiva, originalità
e potenza/resa musical-poetica. “Mondo cattivo” è una dedica
disgustata, in forma di litania, allo schifo che circonda il protagonista
(“beh io mi ritiro / è un mondo cattivo in vari modi e ovunque
vai”): come acqua alla gola, rock imploso e soffocato. “A chi
succhia” potrebbe essere una classica ballata d’amore/odio almeno
fino all’ultimo minuto, quando Godano diventa maestro di metrica e s’inventa
una quartina che dona una luce retroattiva a tutta la canzone, ingigantendola
a dismisura (“non c’è volontà di comprendere / e
questo corrompe la società / cui riesce più semplice credere
/ che i buoni son qua e i cattivi là”). “Bellezza”
mantiene ciò che sin dal titolo promette: è il brano più
immediato del disco e non a caso è stato scelto come primo singolo,
ha un arrangiamento piacevolmente polposo, con una splendida apertura affidata
agli archi, e rende giustizia a quelle rare ma preziose esistenze votate all’encomiabile
ricerca del bello, senza dimenticare di omaggiare Nick Cave che ha cantato
la bellezza nel suo ultimo successo (“Nature boy”). Ispirato ad
un altro titolo caveiano è anche il pezzo forse più affascinante
dell’intero disco, “La lira di Narciso”: una canzone sulla
perdita dell’amore, tema da sempre caro a Godano, che è anche
una rilettura del mito di Narciso, ricca di immagini evocative (squisita la
metafora della ninfea: “poi finalmente un dì ti presi tra le
mani / e le tue foglie si adagiarono sui miei palmi / ma il soffio della vita
e il suo schiaffo ti fecero presto volare via”) e di tutte le solitudini
riflesse giorno dopo giorno, per un anno intero (“un anno di narcisi
e solitudine / specchiandomi nella mia finitudine”), finché anche
quell’anno non si riflette all’infinito (“resterò
qui / un anno, un altro e quanti più / specchiandomi / ovunque dove
eri tu”) altrimenti Narciso non sarebbe Narciso.
Il libro: “Visione distorta”
di Chiara Ferrari
pag. 162; euro 12,50
Giunti Editore
Più che una biografia, uno sguardo a trecentosessanta
gradi dentro il mondo MK. I tre lustri di vita della band piemontese sono
raccontati attraverso altrettante sezioni, chiamate Spore, proprio come quelle
composizioni sperimentali sulle quali i nostri hanno più volte avuto
l’ardire di scommettere, facendone addirittura un intero cd nel 1999.
Spora Uno è Idea MK, la nascita di tutto. Si va dai Jack On Fire!,
la formazione di discreto successo con cui Cristiano Godano arriva sul palco
di Arezzo Wave, all’iniziale line-up a cinque dei Marlene con Alex Astegiano
alla voce; dalle esibizioni scalcagnate degli esordi con i primi vagiti di
catarsi (“1° 2° 3°”, “Merry X-Mas”) alla
genesi del primo capolavoro di follia noise (“Sonica”, 1992).
Spora Due è Musica MK, ispirazione e creatività di una rockband.
Dalle giovanili fascinazioni per Sonic Youth e Nick Cave al contatto con i
propri idoli (due date come gruppo spalla ai Sonic Youth nel ’98 e un
paio di determinanti incontri con Re Inchiostro, a Sanremo nel 2000 e a Roma
nel 2003); da tutte le altre influenze più o meno dichiarate (Neil
Young, Metallica, Gun Club, Tuxedomoon, Violent Femmes, Einstürzende
Neubauten) alle storie e agli aneddoti dietro le registrazioni di “Catartica”,
“Il vile” e di tutti gli altri album dei Marlene.
Spora Tre è Stile MK, la poesia dietro il rumore. Dalla scelta della
lingua italiana all’adattamento di “Ape regina” al particolare
mood creato in Cristiano dall’ascolto di “From her to eternity”
di Nick Cave; dalle annotazioni del cantante sulle canzoni di “Che cosa
vedi” (si scopre che “Grazie” è considerato il pezzo
meno consueto mai inciso dal gruppo, “La mia promessa” il più
intimo, “L’abbraccio” quello col testo preferito) al riadattamento
dell’opera di Gadda ne “La cognizione del dolore”.
Ma la parte migliore di “Visione distorta” è alla fine,
dopo le tre Spore. L’autrice si fa carico di selezionare nove testi
del gruppo e di proporne un’attenta quanto affascinante analisi poetica.
I pezzi scelti sono, nell’ordine, “Nuotando nell’aria”,
“3 di 3”, “Ape regina”, “L’agguato”,
“Le putte”, “E poi il buio”, “Notte”,
“Fingendo la poesia”, “La lira di Narciso”. Perché
le liriche di Cristiano un giorno si studieranno a scuola, questo i marleniani
lo sanno da tempo, ma è bene che tutti quanti comincino a farci l’abitudine.
L’intervista: Cristiano Godano
Con Cristiano Godano, cantante, chitarrista e soprattutto sensibile ed ispirato paroliere dei Marlene Kuntz, abbiamo parlato di “Bianco sporco”, di Nick Cave, di bellezza e del pubblico.
E’ corretto dire che “Bianco sporco”
è il primo album adulto dei Marlene Kuntz e contiene il rock che suonerete
nei prossimi anni?
Non lo so, perché se è vero che abbiamo una voglia insopprimibile
di fare belle canzoni e che con “Bianco sporco” abbiamo fatto
un ulteriore passo in avanti in questa direzione, è anche vero che
in noi ci sono pruriti diversi che potranno concretizzarsi in qualcos’altro.
Magari fra due dischi faremo cose completamente diverse oppure andremo avanti
così, è difficile da prevedere, anche perché i percorsi
creativi dipendono molto dagli stati d’animo e dal mood del momento.
In “Bianco sporco” ci sono chiari rimandi
all’ultimo album di Nick Cave, dai due singoli di lancio che trattano,
anche se da angolature diverse, lo stesso argomento (“Bellezza”
e “Nature boy”) al titolo del brano “La lira di Narciso”
che è un evidente omaggio a “The lyre of Orpheus”. Il doppio
album di Cave ti è piaciuto così tanto?
Sì, mi è piaciuto, e “Bianco sporco” è forse
il nostro album più vicino alle cose di Nick Cave. Però, al
di là del titolo de “La lira di Narciso”, che è
un chiaro omaggio, c’è da dire che “Bellezza” io
l’avevo scritta all’epoca di “Che cosa vedi”, quando
“Nature boy” non era ancora stata concepita o, perlomeno, non
era arrivata alle mie orecchie.
Molti pezzi nuovi hanno nella parte finale il loro punto
di forza e forse anche i versi più belli. Spesso il brano sembra una
preparazione a quello che succederà alla fine. Come mai?
E’ un discorso complicato. Quello che descrivi è uno dei modi
usati dai Marlene Kuntz per tenere alta la tensione durante il pezzo e poi
verso la fine lasciare che si aprano nuovi mondi, è un nostro stratagemma.
Forse non siamo così ancorati alla forma canzone, stavolta evidentemente
l’abbiamo elusa.
Ultimamente ti è venuta una maggior voglia di
rendere manifeste le tue ispirazioni (Updike, Schiele, Gadda, Gozzano)?
Nel prossimo disco non citerò nessuno, proverò ad impormelo.
Il ‘citare’ garantisce tutta una serie di chiacchiere, mentre
in me non c’è nessuna smania di farmi bello delle mie letture
e delle mie ispirazioni, semplicemente, è il caso di Gadda, capita
che una lettura mi coinvolga a tal punto da far nascere un pezzo ad essa ispirata.
Tra tanti versi meravigliosi che hai scritto, forse
in questo disco ce n’è uno che, riassumendoli tutti, si pone
al di sopra degli altri: “noi cerchiamo la bellezza ovunque”.
Quando scrivevo quelle parole, quattro anni fa, ero consapevole di scrivere
qualcosa di impegnativo. Sul tema della bellezza si tormentano da secoli e
non c’è sicuramente bisogno che arrivi il cantante rock di turno
a dire la sua. In realtà quel ritornello ha una delle aperture melodiche
più belle dell’album ma posso dirti che il progetto artistico
del testo di “Bellezza” risiede nelle strofe: l’idea era
quella di esprimere un range più esaustivo possibile di sensazioni
dal quale si potesse uscire protesi verso la bellezza. Le strofe sono scritte
in modo da estremizzare il tutto tra massima abiezione e massima purezza e
da tali contrasti risulta forte la ricerca della bellezza, che non è
intesa solo in senso estetico ma anche, e soprattutto, in senso spirituale.
Sono curioso di sapere che importanza dai ai testi delle
canzoni nel booklet, anche al modo in cui sono scritti. Personalmente credo
che andrebbero scritti come poesie e, tranne casi giustificati, trovo bruttissimi,
anche se sembrano molto in voga, quelli scritti tutti di seguito. Sei d’accordo?
Sì, quelli scritti tutti di seguito sono una merda, sono troppo brutti.
Io credo molto nella componente visiva della poesia. Non dimentichiamo che
la struttura dei versi è anche un modo di entrare in sintonia col lettore.
Analizzando i tuoi titoli trovo “mesta”,
“esangue”, “vile”, “arresa”, “malinconica”,
“cattivo”, tutti aggettivi dal forte connotato negativo, e altri
come “retrattile”, “ineluttabile”, che non sono negativi
ma neanche positivi. E’ una scelta voluta e consapevole quella di virare
le tue poesie verso un tono dell’umore basso?
No, non so, dipende anche dalla musica che facciamo e la musica dei Marlene
Kuntz non ha quasi mai i connotati della gioia, vira spesso verso il magone.
Le prime volte che provavamo “Ineluttabile” ricordo che gli avevamo
dato “Magun” come nome di lavorazione, sia per l’intensità
del testo sia per il suo giro non certo allegro. Io posso dire che quando
scrivo il mio tentativo è anche quello di riassumere il suono, la musica,
proprio come nella più bella definizione di poesia che io abbia mai
sentito, di Paul Valéry, secondo cui ogni parola è “una
lunga esitazione tra il suono e il significato”.
Come giudichi le reazioni di una parte del vostro pubblico
che si sono fatte avvertire dal duetto con Skin in poi?
Avvilenti, deprimenti. Mi intristiscono. Ci sta che qualcosa o qualcuno non
ti piaccia più, ma da lì a mettere in dubbio la nostra onestà
intellettuale ce ne corre.
Se all’estero nessuno si scandalizza se Nick Cave
sia passato dall’insanguinarsi la testa sul palco a cantare “Hallelujah”
al pianoforte o a duettare con Kylie Minogue, mentre in Italia si grida ‘venduti’
ad una band colpevole soltanto di aver reso il suono meno spigoloso e di aver
duettato con la cantante di una rockband, c’è forse un problema
di pubblico? Si può dire che il pubblico italiano sia poco maturo?
Purtroppo sì. Hai perfettamente ragione, le cose stanno così,
vedo immaturità nel pubblico. Pensa, nel rock italiano c’è
persino il problema, lo disse anche Manuel Agnelli, della stupida credenza
secondo la quale i gruppi se la tirano. Ma quando mai… In Inghilterra,
dove i gruppi se la tirano sul serio, e devono farlo perché fa parte
del loro ruolo, il pubblico sta al gioco.
Leggendo la biografia che è appena uscita, mi
ha colpito il fatto che tu abbia fatto conoscere “Verso la fine del
tempo” di Updike a Nick Cave. E’ stato il tuo modo di ricompensarlo
per averti fatto scoprire Nabokov?
No (ride, ndr). E’ venuto fuori in un lungo pranzo insieme, durante
il quale lui mi ha parlato dell’idea del suo secondo romanzo. Ascoltandolo
m’è venuto in mente il libro di Updike e gli ho detto “non
vorrei inibire i tuoi sforzi creativi, ma c’è questo libro di
Updike…”. Quando l’ho rincontrato, un paio d’anni
dopo, lui mi ha raccontato di aver letto “Verso la fine del tempo”
e di averlo trovato il più bel libro degli ultimi cinque anni.
Quando scriverai il tuo “The boatman’s call”?
Non credo che queste cose siano programmabili. Al momento credo che sia un
compito dell’arte quello di essere indiretti o, perlomeno, non completamente
diretti, poi se un giorno mi verrà voglia di espormi maggiormente,
vedremo. Che io sappia, anche Nick Cave non è completamente a suo agio
col suo disco perché, per quanto per me come per te “The boatman’s
call” sia il disco da portare sull’isola deserta, a distanza di
tempo può cambiare qualcosa. E non è facile, quando ci si è
esposti molto.
Recensioni – lunedì 16 maggio 2005, ore 18.11