COUSTEAU
"Cousteau"

Questo disco è la più bella sorpresa dell'anno. Un po' australiano, un po' inglese, un po' irlandese, quello dei Cousteau è un progetto multibandiera, che tanto per confondere le acque ha preso in prestito il nome dal grande oceanografo francese. Anche la musica ha pochi confini, ha dentro tanto l'odore boheme di locali fumosi e poco raccomandabili quanto la bellezza selvaggia di spiagge incantevoli e vergini. Si potrebbe ottenere qualcosa di simile mischiando l'eleganza dei Tindersticks, le visioni dei Bad Seeds, lo swing dei Morphine. Qua e là delicate spruzzate di jazz donano una raffinatezza magica ad un album che ammalia già al primo ascolto. Le canzoni sembrano rubate ad un Eden dimenticato, sono brani senza data di nascita né di scadenza.
Come "Your day will come", che se a cantarla fosse stato Leonard Cohen o Nick Cave, nessuno avrebbe avuto da ridire.
Come "The last good day of the year", che regala una tromba drogata di spleen e parole che si attaccano alla pelle come segni indelebili ("Don't tell me / that you get sick of living / when the summer's so forgiving although we have stolen / all of the things that we thought we had owened then / have disappeared").
Come "You my lunar queen", raramente un piano è stato così onirico e sensuale.
Come "Of this goodbye", con la sua melodia senza tempo, suggello rabbuiato e perfetto, sublime viaggio al termine del nero.
I Cousteau sono gli ultimi membri del "Lonely Hearts Club" e il loro 'rock di notte' può riscaldare le tante anime in transito sull'incertezza del vivere, così come fino ad ora hanno fatto Scott Walker e Morrisey, che il cantante Liam MacKahey dice di amare incondizionatamente.


Pierluigi Lucadei