Grazie alla Chemikal Underground, in Scozia sono venute fuori più
band interessanti negli ultimi dodici mesi che nei dieci anni precedenti
(a meno che non si reputino interessanti nomi come Texas e Wet Wet Wet).
Ma rispetto agli altri gruppi della piccola etichetta di Glasgow, tutti
impegnati in una rivisitazione, seppure originale, del lo-fi americano,
gli Arab Strap si distinguono per un approccio più intimista nei
confronti della musica.
"Philophobia", il loro secondo album, è un viaggio attraverso
il buio e si nutre delle frustrazioni e delle inquietudini, a tratti morbose,
del cantante Aidan Moffat, che sembra voler esorcizzare le sue delusioni
amorose con una lucidità che sfiora l'autolesionismo. Moffat scrive
liriche di una sincerità disarmante, mastica esperienze estreme
e le sputa fuori alla maniera di un Tom Waits leggermente meno folle,
inneggia all'alcool e al peccato ("there's no such thing as sin"),
ad una compiacente abulia ("I'd love to make up but I've had too
much") e alla strana circolarità della vita che lo riporta
ogni volta a confrontarsi con la sua condizione di perdente sistematico
("I thought I'd give her a chance
until I found her with her
hands down someone else's pants"). Sullo sfondo poca roba, una chitarra,
una batteria e un organo qua e là, ma è quanto basta per
costruire melodie oblique e inafferrabili: l'accompagnamento ideale per
le confessioni di Moffat.
Acclamati persino dallo storico dj inglese Steve Lamacq, gli Arab Strap
hanno realizzato uno dei dischi più belli dell'anno. Assolutamente
da avere e da sistemare tra "Rain Dogs" di Waits e "Let
Love In" di Nick Cave.
Pierluigi Lucadei
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