il mondo di Duke Ellington.
S. Benedetto T. - Bitches Brew, primo appuntamento con la storia del jazz.


“I love you madly”, vi amo follemente, con queste parole salutava gli spettatori alla fine dei concerti e degli applausi. L’innamorato, folle d’amore per il suo pubblico è Edward Kennedy Ellington, primo artista ad essere stato ricordato, venerdì 19 marzo 2004, nell’incontro di apertura della rassegna “Africa/Sacro/Diritti Civili. I mondi di Duke Ellington, Charles Mingus, John Coltrane”, organizzata dall’Associazione culturale Bitches Brew di San Benedetto del Tronto, presso l’Hotel International e ideata e condotta da Rodolfo Dini, studioso di jazz e responsabile del Centro multimediale Pianeta Musica del Comune di San Benedetto del Tronto. “In genere le storie del jazz raccontano l’evoluzione di questa musica come un avvicendamento meccanico di periodi successivi, in parte è vero, ma bisogna anche avere ‘nuovi occhi e nuove orecchie’ per poter partire da visuali diverse dall’approccio linearista e cogliere più in profondità le domande culturali, le affinità e le risonanze interne a ciascuna epoca” afferma Dini che con queste parole suggerisce una diversa chiave di lettura dello sviluppo di questa musica. Quella che utilizzerà per far conoscere, nei quattro incontri concepiti, le radici del jazz, uno stile musicale che è nato negli Stati Uniti d’America ma che ha ereditato sonorità africane che si sono intrecciate alla dimensione religiosa e all’impegno civile. Le “tre gambe”, appunto, che saranno analizzate attraverso i mondi di tre grandi personalità del jazz: Duke Ellington, Charles Mingus e John Coltrane.
Edward Kennedy Ellington, detto il “Duca”, nasce a Washington nel 1899 e muore a New York nel 1974. L’appellativo gli deriva da un vicino di casa cui egli è molto simpatico per il suo aspetto garbato e per la sua ottima educazione. Da quella volta sarà “Duke” per sempre. Ellington appare sulla scena quando a New York spira il vento di un movimento artistico letterale, musicale e politico chiamato “Harlem renaissance” che “farà del ghetto newyorkese” sostiene Dini “la Parigi nera, la mecca dell’uomo nero”. In altre parole un riscatto attraverso il quale viene riscoperta e valorizzata la cultura nera e le proprie origini africane: la prima gamba. Duke Ellington si fa portavoce di questa “rinascita” imponendo “alla clientela tutta bianca e molto snob dello sciccoso Cotton Club” continua Dini “un repertorio assai originale che passerà alla storia come ‘stile giungla’. Stile nel quale è stato concepito “Echoes of the Jungle” del 1931, primo brano ascoltato che vede protagonista il trombettista “Cootie” Williams e che storici musicologi hanno definito come “esempio di bellezza musicale selvaggia e raffinata che non è afro-centrica solo per i referenti storico-geografici, ma lo è anche in rapporto alla sostanza strettamente musicale”. Infatti per Ellington come per un musicista africano “non esiste il suono della tromba e di altri strumenti in astratto, come insegnano al conservatorio” spiega Dini “esiste il suono della tromba di ‘Cootie’ Williams che si serve di speciali tecniche per ‘sporcare’ il suono, per personalizzarlo come farebbe appunto un musicista africano”. In “Fleurette Africane”, secondo brano ascoltato, il fiore è la metafora della fuga dalla vita dura ed aspra che offre “la giungla Harlem”, in un mondo onirico inviolato e inviolabile. “Quando Ellington si accinge a registrare il brano che ascolteremo” racconta Dini “egli spiega ai suoi due eccezionali accompagnatori, Charles Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria, come il pezzo dovrebbe essere eseguito dal punto di vista filosofico africano. Cerca di far capire ai suoi due collaboratori che la giungla per gli africani è un posto nella foresta dove nessun essere umano si è mai avventurato e che il piccolo fiore, fragile simbolo di libertà ma dal colore intenso, cresce proprio in mezzo alla giungla, lontano chilometri dagli sguardi umani”. L’intesa è perfetta ed Ellington ricorda “Roach e Mingus afferrarono al volo le mie intenzioni e si determinò uno di quei momenti mistici in cui le tre musiche diventarono una sola”. La presenza di Mingus in questo brano conferma ciò che Dini sostiene all’inizio e cioè che l’approccio allo studio del jazz non deve essere rigorosamente schematico perché spesso, nella stessa epoca, sono presenti già risonanze di artisti collocati in un diverso periodo”. In “Black, Brown e Beige” una suite del 1943, Ellington illustra la vicenda drammatica dell’uomo di colore attraverso il passaggio delle tre tonalità cromatiche della sua pelle, via via che procede nel cammino verso la conquista dell’integrazione razziale. E in “Work song”, uno dei brani della suite, i timpani esprimono il rumore della zappa che scandisce il ritmo del durissimo lavoro degli schiavi.
Altra dimensione che si intreccia allo sviluppo della musica jazz è quella religiosa, il genere spiritual che vi confluisce prima ancora del blues. Ellington esprime questa “seconda gamba” in “Come Sunday”, altro brano ascoltato, che è una vera e propria preghiera dove si narra l’irresistibile attrazione che la comunità nera, non ammessa nelle chiese cattoliche, ha verso “quella graziosa casa bianca” dalla quale proviene una musica dolce e tenera. Il brano è magistralmente interpretato dall’assolo di Johnny Hodges che arriva dopo quello “dolente” del violino di Ray Nance che, fa notare Dini “con ‘un pizzicato’, mette in scena, secondo la fervida fantasia ellingtoniana, l’andirivieni dei fedeli osservato, dall’esterno, dai lavoratori di colore. Molti dei quali vedono nel Cristianesimo, un’ancora di salvezza che aiuta a sopportare la sofferenza terrena, nel pensiero di una vita eterna e di una giustizia ultraterrena. Ellington si sente, come afferma nella sua biografia, “un ragazzo messaggero, che cerca di portare messaggi alla gente. Se fossi un lavapiatti di un locale notturno forse non potrei mettere piede in una chiesa? … Forse Dio, non accoglie più i peccatori?”. E’ così che risponde a chi lo accusa di aver condotto una vita “poco raccomandabile” e di utilizzare nei suoi concerti sacri uno stile poco ortodosso. Sicuramente originale è infatti la rappresentazione del suo primo concerto sacro nella cattedrale di San Francisco, nella metà degli anni ’60. Ad esso appartiene “Come Sunday” contrappuntata dal battito dei piedi di un ballerino di tip tap. “Il suo Dio” sostengono i biografi dell’artista “sta dappertutto, nelle cose, nelle strade, nei locali notturni, in aperta campagna e, incidentalmente, anche in chiesa dove si può esprimere come una danza che si mescola alla dimensione più propriamente liturgica” e come ha scritto Gary Giddins “I suoi concerti sacri non sono delle messe jazz, sono in qualche misura il Cotton Club portato in una messa nera”. L’impegno di Ellington alla “causa nera” percorre trasversalmente tutta la sua carriera. Nel 1947 compone “The Liberian Suite” su richiesta del governo della Liberia per celebrare, nel suo centenario, la fondazione del primo stato libero dell’Africa. Ancora nel 1963 Ellington dà il suo contributo alla celebrazione del centenario della fine della schiavitù con “My people”. Si tratta di un musical vero e proprio e con l’orchestra, il coro e due compagnie di balletto, funge da transizione verso il primo dei concerti sacri. Per comprendere la “terza gamba” ovvero l’impegno civile, politico e sociale un contributo particolare è dato da un brano, che si intitola “Non violent integration” che di primo acchito potrebbe far pensare a riferimenti diretti al sociale, in realtà allude all’integrazione tra un’orchestra jazz e un’orchestra sinfonica. Una metafora per dire che l’Africa e l’Europa, intese non soltanto dal punto di vista dei materiali musicali “possono convivere e sortire nuove sintesi” afferma l’artista “ il cui risultato può addirittura essere superiore alla somma dei componenti. L’incontro si è chiuso con la programmazione di un video sui concerti più famosi del Duca da “Mood Indigo” a “Take the ‘A’ Train” passando per ”Black and Tan Fantasy”, “It Don’t Mean a Thing” “Sophisticated Lady” ecc.
Il prossimo appuntamento è per venerdì 26 marzo 2004 con un’altra grande personalità del jazz: Charles Mingus.

Nicoletta Amadio

Cultura e Spettacoli, 2004-03-23