Ringrazio il cielo che si siano rimessi insieme. Come
amanti irrequieti che non possono restare distanti troppo a lungo. Lo
show dei Living Colour è di quelli da godere godere e godere
poi prendere e nascondere nei cassetti più preziosi della memoria.
“Look in my eyes, what do you see? the Cult of Personality
I know your anger, I know your dreams,
I’ve been everything you wanna be, I’m the Cult of Personality
Like Mussolini and Kennedy, I’m the Cult of Personality”
Troppo lancinanti queste liriche per essere ascoltate su disco. Questi
quattro geni bisogna vederli dal vivo. Corey ha una voce soul sorprendente,
duttile, calda ed arrabbiata. Muzz giganteggia al basso e, quando prende
la parola, lo fa per inveire contro Bush e Blair. Will sembra il fratello
maggiore di Clarence Seedorf e la violenza con cui picchia le pelli
è la stessa usata dall’olandese per calciare il pallone.
Poi c’è Vernon. Lui è di un altro pianeta. Apre
il concerto con un assolo a velocità siderale. Pare posseduto
dal fantasma di Jimi Hendrix. Quando arriva al limite della crisi epilettica
e il suo sguardo da invasato comincia quasi a mettere paura, partono
anche basso e batteria e “Memories Can’t Wait” dei
Talking Heads da il la ad uno show indimenticabile. “Leave it
alone”, “Middle Man”, “Flying”, splendida
ballata dall’ultimo album “Colleidoscope”, lasciano
pochi dubbi: i Living Colour suonano crossover con l’autorità
e la perizia dei padri del genere. Un genere che ha fatto il suo tempo,
si dice da un po’. Niente di più falso. E’ semplicemente
stato smerdato da inetti cacciatori di successo senza tecnica e senza
ispirazione (e, se non entrambe, almeno una delle due è indispensabile):
non serve fare nomi, basta accendere Mtv; i più somari hanno
recentemente rovinato una canzone degli Who.
Il crossover dei Living Colour è più vivo che mai, dentro
si può trovare di tutto, metal, jazz, soul, punk, reggae, rock’n’roll
e, naturalmente tanto funk. “Il funk è un modo tutto particolare
di interpretare la chitarra, è imprescindibile, in quanto ti
permette di ampliare la tua conoscenza della ritmica e dei controtempi”,
parola di Vernon.
Il concerto riconcilia con la voglia di musica, che siano benedette
le reunion per una volta! “Cult of Personality” arriva quando
ormai non se ne può più fare a meno. Corey tocca il pubblico,
si accovaccia a terra, finge un pisolino sulla spalla di Vernon, libera
negli amplificatori tutta la potenza delle sue corde vocali nere, poi
ride, ammica, ride ancora. Niente pose da star, solo sostanza. Quando
se ne stanno per andare, il pubblico li reclama a gran voce. A Vernon
e soci basta uno sguardo d’intesa. “Ok, one more”
sentenzia Corey e la serata si chiude con un omaggio a Joe Strummer,
scomparso pochi mesi fa. E col sospetto che “Should I stay or
should I go” sia sempre stata black.
Pierluigi Lucadei
Recensioni – 22 mar. 04, ore 13.07